Agorafobici / Claustrofobici

Gerry

FILM APERTI, FILM CHIUSI

Il cinema è fatto d’infiniti universi dentro altri universi, rappresentati secondo prospettive in grado di sviluppare pure sensazioni di agorafobia o di claustrofobia, a seconda delle circostanze. Perdersi dentro questi mondi è pane per i denti di un cinefilo che fa attenzione ai minimi dettagli racchiusi all’interno di un film. Il cinefilo medio di certo non soffre di claustrofobia dentro un cinema ed anzi può soffrire al contrario di uno stato di coscienza di agorafobia. Se assiste a quel tipo di cinema che predilige gli spazi sconfinati come il western o la fantascienza, può facilmente credere di soffrirne, tant’è grande e immenso e perdurante il potere persuasivo sul grande schermo. Non è una patologia, semmai se di patologia si tratta, quella riguarda solo ed esclusivamente la malattia del cinema, quella’insaziabile fruizione d’immagini necessarie alla sopravvivenza. I cinefili si nutrono di immagini e ne cercano, talvolta vanamente, di nuove. Non sono mai sazi, tentano con tutte le loro forze di trovare un’idea che si associ ad una singola immagine. Non immagini a sé stanti quindi, ma idee visive che viaggino alla velocità delle luce, dentro al nostro cervello. Fruire una immagine di tale vastità in un contesto come quello della sala cinematografica provoca di solito profonde emozioni. Queste profonde emozioni spesso non sono riconoscibili sin dai primordi della loro comparsa, ma si innestano con il tempo, come un parassita nella nostra mente, tanto per citare il maestoso Inception (2010). Un film vuole essere fruito come una droga, letto come un libro con la calligrafia minuscola, e infine assorbito come una spugna tramite l’ausilio di tutti i sensi. Film di spazi aperti e film di spazi chiusi, non soltanto visivamente. Vedere allo stesso tempo, uno dietro l’altro, un film come Inception (2010) di Christopher Nolan e uno come Buried (2010) di Rodrigo Cortés, oppure un film come Gerry (2002) di Gus Van Sant e uno come The Descent (2005) di Neil Marshall – per non parlare di The Tree of Life (2011) di Terrence Malick che è un purissimo viaggio attraverso sentimenti claustrofobici e contemporaneamente agorafobici – può realmente farti provare sulla tua pelle e all’interno del corpo la sensazione riguardante le suddette patologie, per poi arrivare ad agire direttamente sulla mente, in modo d’amplificare il tutto (come accade nella testa dell’intrappolato Aron Ralston del film più bello e convincente di Danny Boyle, 127 Hours). Ma attenzione, badate bene, non è detto che un film agorafobico susciti, nel cinefilo o nello spettatore comune, lo stesso identico risultato (e lo stesso vale per il film claustrofobico). Gli spazi onirici sono molteplici e il più delle volte confondono le idee, le prospettive e le dimensioni sensazionali. Ne è il più forte esempio proprio il summenzionato Inception, dove le architetture mentali degli ambienti ricreati dal vivo permettono la fusione delle due cose, agorafobia e claustrofobia, in maniera insolita e destabilizzante. È proprio questo il punto: sorprendere, sospendendo ad una certa significativa altezza, lo spettatore. E in questo il film di Nolan vi riesce benissimo perché non ci sono limiti in Inception.

Ma proviamo a tornare un pò indietro per cercare di scoprire e capire quanto sia già stato superato il limite massimo della visione. Il cinema nasce come lanterna magica ed essendo fatto di luce, egli non vive senza di essa. La luce gli dona quel calore necessario a far sì che la pellicola, tramite un rocchetto di rotazione, scorra all’interno del proiettore. Il proiettore oggi ha nuovi modelli, così come la macchina da presa si è trasformata in cinepresa e oggi in videocamera HD. I mezzi non diventano mai logori, anche se posti di fronte all’infinita frontiera dell’informatica, della computer grafica, del 3D e della stereoscopia, necessitano una riveduta. Resta, come fondamentale premessa, il fatto che il cinema sia sempre meglio farlo e viverlo direttamente sul set, e trovare un completamento poi, laddove necessario, con la computer graphic. Per non entrare troppo in termini puramente tecnici, spiego allora che il limite massimo di visione è quel limite oltre il quale si ha quasi l’impressione di andare oltre il telo su cui sono proiettate le immagini, e sembra soprattutto di avere la forte sensazione di immergercisi dentro con tutta l’ampia gamma sensoriale dataci in dono.

Nonostante la tecnica di ideazione, creazione e riproduzione di un film, si sia evoluta in maniera abbastanza costante nel corso del suo secolo e passa di storia, il cinema è stato in grado di stupire anche senza il ricorso a grandi effetti speciali, sin dal cinema muto. Muto è sinonimo di immagini senza parola e senza sonoro. Non sentiamo nulla ma abbiamo quasi la sensazione di sentirlo quel nulla. Ci viene trasmesso in maniera conscia dalle immagini e noi lo percepiamo in maniera inconscia. Si tratta di una strana sensazione che vale la pena di provare con un film muto, e se possibile, facendo un esperimento: soli in casa, davanti ad un lettore dvd, infilate il dvd desiderato all’interno del dispositivo e godetevi la visione di un film muto senza l’audio, poiché la maggior parte dei film muti venivano accompagnati da alcune esibizioni musicali in sala da parte di pianisti ed oggi sono stati masterizzati su dvd con delle musiche a commento delle immagini. Cercare, quindi, di entrare dentro le immagini, perché è di questo che il cinema si nutre, d’immagini soggettive ed oggettive. Pertanto, ne uscirete con la sensazione di aver assistito a qualcosa di diverso. Importante, nonostante ciò, si è rivelata poi l’introduzione del sonoro, per far vivere con maggiore consapevolezza l’atmosfera degli scenari, con i relativi suoni e rumori. Ciò che appesantisce la visione è la parola, ma soprattutto il dialogo, non fondamentale per il cinema a mio modo di vedere. Una parola, un dialogo incessante che aiutano alcuni film ad essere maggiormente comprensibili ed a valorizzare l’attore, ma che spesso finiscono per risultare deleteri per la qualità stessa del film, quando quello stesso elemento sopravanza gli altri, fondativi il linguaggio.

Un film muto può condurci davvero in un “mondo altro”. Come ha fatto Friedrich W. Murnau con il Nosferatu (1922), dove gli esterni con gli interni si alternano continuamente in un andirivieni visuale e narrativo in grado di sconvolgere le nostre prospettive, impegnate a lasciarsi suggestionare più che altro dall’immagine iconica del mostro con le orecchie a punta (il nosferatu del titolo). Il vento (1927) di Victor Sjöstrom o Greed – Rapacità (1924) di Erich Von Stroheim, sono ricchi di immagini agorafobiche: campi totali e piani d’insieme di un disegno tragico che include la mano della natura, volta a controbattere quella indisciplinata dell’uomo. Agorafobie e claustrofobie indotte dagli scenari. A volte una finestra aperta in un bagno piccolo e stretto, dove vi è rinchiuso un uomo scappato da un pericolo perché ricercato (mi viene in mente la straordinaria scena ad alto tasso adrenalinico in cui Dustin Hoffman, nel pregevole thriller The Marathon Man – Il maratoneta di John Schlesinger, si rifugia nel bagno per proteggersi dall’intrusione in casa da parte di alcuni criminali sconosciuti), può indurre più all’agorafobia rispetto ad una vallata cavalcata da un cowboy rigido e senza pietà che ha il marmoreo volto di John Wayne. John Ford ci ha messo tanto del suo per combattere l’assillo, ma non ha voluto risolverlo, perché in fondo al cinema fa bene così.

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