Quando il Ponte Ferroviario sul Fiume Mae Klong fu costruito era il 1943. Quando il Ponte sul Fiume Kwai fu costruito (davvero) nell’Isola di Ceylon, era il 1957, anno di produzione dell’omonimo film di David Lean. Si trattava di un progetto giapponese, costruito dai prigionieri di guerra del Commonwealth olandesi e americani, per migliorare le comunicazioni e sostenere il grande esercito nipponico in Birmania. Durante la costruzione, morirono circa 13.000 prigionieri di guerra e i loro corpi furono sepolti proprio lungo la ferrovia. Nel corso del progetto persero la vita la bellezza di 80.000-100.000 civili, perlopiù manodopera forzata deportata dalla Malesia e dall’India. Ciò che si vede nel film di David Lean è mitigato rispetto a ciò che accadde veramente. C’era molto di più in verità, ma c’è molto di più anche nel film stesso.
Il Ponte sul Fiume Kwai è la storia di una delle più imponenti e incredibili imprese della storia del cinema. La manodopera al lavoro è la troupe stessa che cerca di portare a termine il film, tanto quanto gli schiavi, all’epoca, portarono a termine l’estenuante impresa. In realtà furono costruiti due ponti, uno in legno e uno in acciaio e cemento, ma solo uno dei due fu abbattuto dagli attacchi dei bombardamenti alleati. L’impresa dell’epico film di David Lean è avvolta tutta nella forza della mano dell’uomo contro le barbarie e la follia della guerra che hanno sempre cercato di rendere nulle le capacità umane annichilendole a favore delle improprie armi.
Succede più o meno la stessa cosa nel sontuoso Fitzcarraldo (1982) di Werner Herzog. L’uomo, quello ritenuto come un pazzo visionario al di fuori di ogni logica terrena, ha solo un desiderio: costruire un Teatro dell’Opera nel bel mezzo della foresta amazzonica, esattamente a Iquitos. Per farlo deve condurre la sua nave su una ripida collina, attraversando i fiumi Ucayali, il Rio delle Amazzoni e le turbolente rapide del Pongo das Mortes, poiché decide di dedicarsi alla raccolta del caucciù, in modo da potersi finanziare l’ambiziosissimo progetto. Giunge fino al fiume Pachitea, ideale approdo per la nave. Il pericolo è rappresentato dagli Indios, abitanti le insenature che Brian Sweeney Fitzgerald (un addomesticato Klaus Kinski) è costretto ad attraversare. Il popolo selvaggio però lo aiuta nell’impresa del trasporto sul monte, credendolo il Dio che li condurrà in paradiso. L’impresa fallirà, ma non il coraggio della mano dell’uomo. Fitzgerald, così come Herzog con tutta la sua troupe, sono stati i primi nella storia ad aver superato le rapide del Pongo.
Fitzcarraldo è l’avventura dentro l’avventura del cinema. L’impresa apparentemente irrealizzabile che diviene possibilità reale, grazie ai mezzi della settima arte che sono anche i mezzi dell’uomo. La forza-lavoro è la macchina-cinema all’ennesima potenza. Il sogno di un regista che ha sempre rischiato qualcosa nei suoi film, ma che in questo ha veramente e ripetutamente rischiato la vita. Werner Herzog ingaggia un vero e proprio duello con il folle autocrate Klaus Kinski, cercando di far da balia allo stesso tempo alle inevitabili nevrosi della coraggiosa Claudia Cardinale. La lavorazione del film fu piena d’imprevisti e disgrazie: il primo tentativo di portare a termine l’impresa nel 1979 che non andò a buon fine a causa dell’opposizione di un gruppo politico locale; il caso Jason Robards che avrebbe dovuto essere l’attore protagonista ma che si ammalò e per questo fu costretto a sciogliere il contratto così come fu annullata la parte data a suo tempo a Mick Jagger (leader della band Rolling Stones); l’idea di girare il film con una vera nave creò non pochi problemi e impedì a Herzog di essere prodotto dalla 20th Century Fox; la scena del traino della nave sulla montagna fu voluta fortemente da Herzog ma non dall’ingegnere brasiliano Leplance Martins così l’incidente del tirante che si ruppe causando lo scivolamento della nave accadde veramente ed è rimasto tale e quale nel film; il grave incidente alla mano dell’operatore Thomas Mauch a causa dell’imbarcazione che urtò contro una parete rocciosa e il conseguente incagliamento della nave che costrinse la troupe ad interrompere le riprese per molti mesi fino all’arrivo della stagione delle piogge che risolse il grave imprevisto. Le riprese terminarono nel novembre del 1981, quasi quattro anni dopo l’inizio ufficiale. Non ci fu impresa più colossale e storica in tutta la storia del cinema.
Oggi, dopo aver visto il piccolo film indipendente Controcorrente (Against the Current, 2009), di Peter Callahan, presentato al Sundance e passato inosservato in Italia, un nuovo ponte, in parallelo, finisce per combaciare con l’asse dei suddetti film. Si narra la storia di Paul Thompson che in prossimità del quinto anniversario della scomparsa di sua moglie, morta a causa di un incidente stradale, decide di attraversare a nuoto il Fiume Hudson per giungere in tempo, entro il giorno di ricorrenza, sull’altra sponda nella città di New York. Si fa accompagnare, in modo da poter fare delle pause quotidiane in diverse località circostanti e ristorarsi, da un amico e una conoscente. Ma la sua impresa nasconde un terribile segreto che una volta svelato contrarierà non poco i suoi accompagnatori. Però, nel corso della traversata, Paul sembrerà riscoprire i piaceri per le piccole cose della vita, riavvicinandosi al sentimento che poi inizia a provare nei riguardi della sensibile accompagnatrice. L’impresa di attraversare il fiume, nelle sue ultime 150 miglia fino al Ponte Giovanni da Verrazzano, è legata al bisogno di dover fare qualcosa di significativo e di clamoroso nella vita, prima di abbandonarla del tutto. L’impresa del film che c’è dietro l’idea dello sceneggiatore Michael Taylor e del regista Peter Callahan è quella di viverlo il cinema, attraverso la bellezza delle sue immagini (e ce ne sono molte in questo sorprendente film) e l’intensità dello sguardo sublime. Controcorrente arriva dritto al cuore con semplicità e coraggio, senza fronzoli o significati nascosti, anche nei dialoghi fra personaggi apparentemente distolti contro l’unico che appare fermo nella sua decisione ultima. L’uomo attraversa il fiume come fosse un ponte privo di pericoli. Non esiste più il comandante Saito e nemmeno la Convenzione di Ginevra, e se Fitzgerald è riuscito in almeno una delle due imprese a detta degli altri “impossibile”, allora quella di Paul Thompson ha lo stesso identico valore. Poco importa del pericolo. Il coraggio è lo stesso, la passione e la credibilità anche. Con le incantevoli musiche di Mark Kozelek (del gruppo dei Sun Kil Moon), il viaggio acquatico si fa disteso e profondamente meditativo. Niente follia né dolore. Nessun urlatore in preda al panico o al richiamo della forza-lavoro. Solo un essere, un individuo con le proprie braccia e almeno due persone verso cui fare affidamento.
Ma forse il viaggio catartico per eccellenza ce lo offre l’incantevole film di David Lynch: A Straight Story (Una storia vera), un film bellissimo e semplice, che infonde tranquillità e purezza. Aggettivi che sempre di più nel cinema di oggi non possono essere abbinati assieme. La metafora di un grande desiderio che diviene impresa di vita, l’ultima.
Il senso del cinema, che dietro ad un’impresa incredibile e apparentemente impossibile (e lo è anche di più rispetto a quella compiuta da Fitzcarraldo nel film omonimo) rivela l’essenza della progettualità che non ha confini né limite alcuno quando è spinta dalla credibilità data dalla forza immensa e dal rigore della passione. Un film che sa prendersi i suoi tempi e li lascia respirare, cullati, nelle braccia del suo pubblico. Un’opera che fa del paesaggio un’ossatura unica del vissuto del protagonista, in grado di muoversi con la calma e la meditazione tipiche di una senilità che non si accetta come tale. La sua più grande impresa è quella di riuscire ad arrivare, perché sa che quella sarà l’ultima della sua vita e di certo la più grande di tutte.
Una storia vera è un film di cui è opportuno non dire troppo, uno di quei film da vivere, perché vanno respirati poco a poco, a ritmo dei passi dell’uomo in viaggio. E sarebbe opportuno non rivelare troppo non perché si verrebbero a sapere delle verità sui personaggi e sulla loro storia. Nel caso del film di Lynch, così apparentemente diverso dai suoi precedenti (ma in realtà presenta dei punti di contatto con Twin Peaks, basti pensare alla scena dell’uccisione accidentale del cervo), quel che conta più di ogni altra cosa è assecondare l’incredibile impresa (di attraversare interi stati dell’America su di un trattorino tosaerba), figlia indissociabile del cuore.