LA SOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ESSERE
Franco Piavoli nasce a Pozzolengo il 21 giugno del 1933. La sua è una lunga gavetta, gira per le campagne della sua terra, nel bresciano, fra ciottoli, fiumi, alberi, nel mezzo del verde e delle stagioni. L’ispirazione per i primi cortometraggi viene da lì, da quei luoghi incantati che parlano da soli. Già dai primi lavori si vede quanto sia legato alla terra ed ai suoi ritmi. Lui vuole far parlare le cose più che le persone.
Il pianeta azzurro (1982) dimostra già quanto il suo cinema sia polifonico, uno strumento, un’esperienza audio-visiva, per un film rarefatto, delle stesse caratteristiche delle stagioni. Si alternano inverno, autunno, primavera, estate, in un canto del cigno generale della natura e dei misteri che la circondano. Una singola goccia di rugiada può divenire lo strumento nella poesia del dettaglio. Parlano i suoni ed i rumori, quindi gli ambienti, i colori, la fotografia amalgama perfettamente le componenti delle immagini in un magma favolistico sull’invisibile, su ciò che non è dato vedere né tantomeno sapere.
Nostos – Il ritorno (1989) è ispirato alla figura di Ulisse, ne dà una personale rilettura del mito del ritorno e del viaggio. Il film non ha dialoghi anche in questo caso, i personaggi sussurrano parole incomprensibili nel mezzo del frastuono dei fatui movimenti della natura, del loro linguaggio, e di quello dell’uomo che è ispirato ad antiche lingue mediterranee. Ne esce un vero e proprio concerto audio-visivo che è il punto più alto forse della contenuta filmografia del regista lombardo. Un capolavoro del sentire nel quale massimalizza l’intimo segreto che unisce l’uomo col creato e ce lo mostra sottinteso dentro sfumature che visivamente tolgono il fiato.
Piavoli riesce a fare un film su ciò che sta dentro lasciando trapelare attraverso il linguaggio dei suoni della natura che ruota attorno al personaggio principale, tutto un mondo altrimenti invisibile. Il mito non è più un tabù, ma diviene l’essenza stessa di ciò che apparentemente sta dietro all’esistenza, dietro alle cose sfocate ma che ragionano, in principio al tempo che scorre e fulmina l’esistenza lasciando disperdere le coordinate dell’uomo, ora solo, perché è l’unico modo per cercare di comprendere il mondo.
Voci nel tempo (1996) descrive la vita degli abitanti di un paesino nelle loro giornate tipiche fra scorribande, giochi, inseguimenti, amori, dal chiarore dell’alba al silenzio della notte che copre tutte le generazioni che nelle piazze si alternano in un emozionante andirivieni di situazioni riconosciute da tutti. Il film è meno ardito, in bilico fra il documentario e il suo solitario modo di fare cinema, stavolta Piavoli decide di ritrarre bozzettisticamente l’ambiente ed i suoi abitanti senza quella rarefazione dell’insieme che caratterizzava i primi lavori. Ne esce un prodotto interessante, a tratti anche emozionante, ma privo di quella energia a cui ci aveva abituati con il documentario sulle stagioni e con il suo primo lungometraggio, capolavoro del suo cinema.
Energia che recupera con il film forse più poetico: Al primo soffio di vento (2003) riflette l’incomunicabilità della nostra epoca, quella in particolare di una famiglia che se ne sta isolata, in una giornata come tante, nella calura estiva di una zona di campagna. Riflettono tutti sul proprio essere e il proprio avvenire, fra suggestioni ambientali, arcaiche e magiche, mitologie favolistiche e allegoriche (la bambina e l’albero, lo sconosciuto che sfreccia con la sua moto nel bel mezzo della campagna, ma è solo un attimo e poi via, niente più, la musica da camera che diviene musica d’insieme, gli schiavi neri che lavorano nei campi mentre l’uomo li osserva muto e incompreso).
Al primo soffio di vento riflette la distanza nella comprensibilità fra l’uomo e lo straniero. Uomini di colore, simili agli schiavi africani, lavorano nei campi, mentre l’uomo li osserva da una certa distanza fisica ed emotiva, poi appunto si chiude in casa addormentandosi di fronte ad una tv che non dice niente, producendo soltanto rumore. La donna di casa medita e sospira ad un tavolo, cercando di riassettare la casa e riordinare le idee. Un’altra donna suona continuamente lo stesso motivo al pianoforte (Eric Satie), e quella musica accompagna tutta la famiglia nella sua immensa solitudine, lontano dai rumori del mondo che ogni tanto s’infiltrano di nuovo per tentare di risvegliare un’umanità assopitasi nella quiete perché condizionata dal precedente caos che ha generato una fuga.
L’adolescente vaga alla scoperta dei segreti dell’ambiente, e lo trova nelle incantevoli suggestioni della natura, descritta sempre con un grande gusto per il paesaggio, dove tutto concorre ad un disegno emotivo e psichico che ha pochi eguali nella storia del cinema. Piavoli riesce nell’impossibile, descrivere e raccontare con il solo ausilio delle immagini (e in questo sta sullo stesso piano dei grandi pionieri del muto, anche se il suono è fondamentale per il regista), evitando di far parlare le persone, bensì tutto ciò che vive attorno a loro. Il suo è un cinema da grande spartito, indivisibile, inclassificabile, geniale.
Dice a proposito del suo stile: “Mi piace costruire un cinema che non segua una linea narrativa netta, ma che crea il racconto attraverso la concertazione di diverse voci, di diverse immagini, di diversi frammenti, per trarne un concerto di carattere polifonico. Nel film a struttura sinfonica non interessa tanto lo svolgimento del dramma quanto il coinvolgimento nel tema proposto attraverso la composizione delle immagini e dei suoni in un tessuto audiovisivo complesso che procede per sovrapposizione di scene e inquadrature sonore. Al di la dell’impatto fisico e realistico, sia le immagini che i suoni hanno un valore simbolico ed evocativo”.
Il simbolismo deve per forza di cose essere evocativo e lo è nella misura in cui la natura stessa del cinema che racconta i misteri stessi della natura vada oltre l’immaginazione, pertanto le immagini e i suoni sprigionano quell’energia che contengono e che raramente gli viene estratta perché forse astratta: “Essi possono risvegliare in noi emozioni depositate da millenni. Del resto, tutte le cose che non ho potuto fare con la musica, mio primo grande amore insieme alla fotografia, le ho potute realizzare con il cinema che ha potenzialità immense”.
Il suo è un cinema quanto di più lontano dalle caratteristiche generalizzate di teatro fotografato. Una situazione condizionata fortemente dalla tv che ha preso sempre più spazio nella vita degli italiani, legati, allo stesso tempo, troppo alle tradizioni, al teatro e ad un certo tipo di linguaggio in grado di richiamarne uno comprensibile. A tal proposito Piavoli asserisce: “Oggi il cinema e la televisione fanno interagire le immagini con i suoni, ma allora perché limitarsi ad usare questi suoni solo in una direzione, utilizzando esclusivamente le parole per veicolare messaggi concettuali, rifacendosi così a tutta l’esperienza teatrale e letteraria?”.
La risposta è semplice anche se poco esaustiva: la tradizione richiede comprensibilità e farne a mano tramite un medium che arriva a milioni di persone, di differente età, status sociale e culturale, non può condurre ad uno sviluppo dello stesso, poiché quella della televisione è ormai una vera e propria crociata contro il linguaggio del cinema che sta tentando di assorbire con i suoi mezzi, piuttosto insalubri. E il problema, soprattutto di natura economica, è quello che molte persone si assoggettano al sistema per denaro, contribuendo così all’omologazione dalle forme del linguaggio televisivo dell’ex cinematografo, l’unico linguaggio, quello televisivo, riconosciuto dal pubblico come proprio (e anche da lì, da quel tipo di linguaggio, nasce la fatica di leggere un libro, di seguire con attenzione dall’inizio alla fine un film che induce a far pensare attraverso le immagini, e la pigrizia nell’ascoltare un album dal complesso tessuto sonoro, ad esempio).
Piavoli lo sa bene ed è per questo che ha scelto la strada più impervia, al di fuori del sistema e delle sue regole, con l’ausilio di circuiti alternativi, parallelamente condivisibili.