Il terzo film di Steve McQueen è tratto dall’omonimo romanzo scritto dal vero Solomon Northup nel 1853 ed è il film del confermativo salto di qualità, non solo per l’altissimo numero (da record assoluto) di riconoscimenti che sta avendo in tutto il pianeta terra, ma anche per l’effettivo, intrinseco valore assoluto dell’opera cinematografica del sicuro regista inglese. Dentro al film non vuole esserci soltanto la straordinaria storia di sopravvivenza di un uomo che è convinto che tutti i nodi del male vengano al pettine dei giorni andati e mai dimenticati ma anche la consapevolezza della sicurezza nel tratteggio dei personaggi e nella direzione che McQueen è in grado di dargli poggiandosi sicuro sul pathos che sa imprimere ad ogni singola scena, come se fossimo in presenza di una finissima strategia della tensione. Magistrale è innanzitutto la regia di McQueen, fatta d’inquadrature rigorosamente pulsanti di verità, saldate sulla vasta armonia del paesaggio; impronta di stile che rivela, ancora, una certa intimità e una fisicità che ti fa vivere al pari dello straziante dolore lasciandoti immedesimare completamente. C’è poi la liricità del piano visivo con la macchina da presa che si muove sinuosamente infiltrandosi negli spazi delle piantagioni e fra gli occhi dei sopraffatti, domati, ma non ancora sconfitti. Chiwetel Ejiofor impersona i panni di un silenzioso eroe (ingiustamente dimenticato da storici e media) riportato agli onori dei fatti da un film come questo, di certo non uno qualsiasi. E se 12 Years a Slave non è un film qualunque ciò è dovuto alle scelte di un cast di attori straordinari e al suo protagonista che riesce a donare al suo personaggio una espressività (col solo sguardo ci comunica tantissimo) una umanità, una tale credibilità e una emotività che lasciano esterrefatti (e che lo innalzano un gradino più in alto rispetto ai suoi principali rivali della notte dell’Oscar); anche quando, muto, davanti alla cinepresa, se ne sta in silenzio a soffrire e sembra cercarci con lo sguardo, comunicando uno smarrimento che non sembra avere alcuna via d’uscita. La direzione degli attori di Steve è da brivido (attualmente è senz’altro il più grande direttore di attori) e lo si denota anche dai più piccoli ruoli, persino dalle comparse. Un’altra interpretazione formidabile che fa letteralmente accapponare la pelle è quella di Michael Fassbender nel ruolo del crudele Edwin Epps, per il quale dà il meglio di sé ancora grazie ad un’esaltante collaborazione con McQueen; basta osservarlo quando si contorce dai tormenti dell’anima che non gli dà soluzione al suo inferno o come quando sorprende Solomon in un ingenuo quanto inconsulto tentativo di raggiro, o ancora, come quando è costretto a frustare la schiava con la quale si accompagna (un’altra scena pazzesca). O ancora l’incisiva drammaticità di Lupita Nyong’o, anch’essa candidata all’Oscar in compagnia di Ejiofor e Fassbender, che ci dice già tutto dal primo battito di ciglia e senza bisogno di parole. Che dire poi delle scene in cui vediamo spuntare i volti noti di Paul Dano, Paul Giamatti, Brad Pitt, Benedict Cumberbatch e Sarah Poulson? Basta farli spuntare, pochi secondi e zac! Si è rapiti come per magia dalla maestria di tutti. E non può non catturare la colonna sonora di Hans Zimmer, magistrale al pari del lavoro al montaggio di Joe Walker, tessitore di trame filanti dentro intelaiature di sponde d’immagini, con bassi profondi (com’è solito in Zimmer) e aperture orchestrali che rivelano una variazione nel tema principale, di quello splendidamente composto per il finale di Inception. Ma non c’è compassione nel massiccio cinema di Steve McQueen, per cui che non ci si aspetti i fuochi d’artificio alla Tarantino! O il classico film romanzato alla Amistad! “12 anni schiavo” è il film di cui la storia del cinema aveva bisogno; il più vero, solido, nitido, sul tema dello schiavismo. La verità di un film che ti sa scuoiare la violenza più infima rendendotela sublime, perché accordata sulle note altissime della speranza di salvezza racchiusa negli occhi di Solomon e anche nelle sue gambe, nei suoi piedi, in tutti quei piccoli movimenti che riesce a fare, non a caso a lungo, per tanti lunghissimi minuti nel tentativo di sopravvivere ad un infimo tentativo d’impiccagione, in quella che è la scena più elevata del film. Che si becchi una sfilza di premi, giacché di film come questo se ne vedono uno ogni dieci, dodici anni.
Valutazione: ☼ ☼ ☼ ☼