Kinesthetic / Visual /Auditory

vertigo

C’è una verità che nel cinema viene prima di tutte. Le immagini hanno bisogno di essere viste, prima ancora che guardate. Quello che nel film di Luis Buñuel e Salvador Dalì, Un Chien Andalou (1928), viene “rasoiato” con una lametta, è un occhio; l’occhio di una donna. Come se l’atto di vedere e contemporaneamente di essere visti, potesse essere distrutto o distratto da una rottura. Eppure noi spettatori, instancabili voyeuristi, siamo ancora lì, siamo impegnati, perversamente, a goderne. La nostra natura ci porta ad essere consapevoli del fatto che questa potrà essere soltanto una parafilia e mai una perversione.

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Quando l’assassino, nel film Opera (1987), di Dario Argento, infila degli aghi nelle palpebre della vittima, legata e imbavagliata su una sedia all’interno del teatro d’Opera, noi vediamo e siamo visti ancora, di nuovo, seppur in maniera diversa; la soggettiva della povera donna che mugugna disperata, ci fa immedesimare sadicamente, e allo stesso tempo masochisticamente, con quanto le sta accadendo. Per cui vediamo l’assassino, come incastrati oltre le sbarre di una prigionia visibile e sentitamente visionabile, ma vediamo anche noi, ossia la donna, dall’interno di quelle sbarre-ago, bilancia di uno stato d’insubordinazione coatto al mezzo filmico.

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Due modi nettamente separati e separatisti di leggere la visione all’interno e dall’esterno di un film. Possiamo sentirci parte di un meccanismo con poco e può essere sufficiente un semplice cambiamento di visuale, di prospettiva cinestesica, puramente attitudinale. Cinestesico o cinestetico è una parola che proviene dal greco kinesis (movimento) e riguarda persone che di norma, al loro interno, rappresentano e sono in grado di memorizzare i concetti come sensazioni fisiche. L’occhio lacerato è un’immagine ruvida che suggerisce precise sensazioni fisiche di disagio; ma anche un’esteriorità che veicola immagini interiori, del resto, prerogativa del surrealismo e di tutto ciò che ha a che vedere con l’astratto. Partiamo da un concetto basilare, lo spettatore cinestesico/cinestetico è perfettamente in grado di vedere, sentire, vivere il cinema. E contrariamente a quanto si pensi, è il tipo di spettatore più diffuso al mondo.

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La gestualità tipicamente visuale è tipica dello spettatore che muove gli occhi verso l’alto, si adagia su traiettorie verticali e solitamente privilegia il cinema della vertigine. Il cinema fantastico, in special modo quello sui supereroi, appassiona generalmente lo spettatore visuale che dà molta importanza all’aspetto visivo, agli effetti speciali e anche all’estetica delle immagini, meglio se roboanti e con attori che il più delle volte “alzano la voce” tenendo sopra le righe il ritmo. Costui è uno spettatore “centrifugo” che empatizza fraternizzando con lo schermo e con le parole stesse che assimilerà nel corso della visione del film, gesticola, a volte si muove, respira poco, ama trattenere il fiato, respirando poco e per piccoli tratti. Vivrà il film in maniera emotiva, ma non è detto che lo viva in maniera molto profonda. La vertigine che proverà sarà data, quindi, dall’aspetto visivo: come non pensare allora alla vera e propria vertigine che crea una delle immagini più potenti del film Inception (2010) di Christopher Nolan, quando Parigi, la Parigi del sogno da architettare, sembra ribaltarsi improvvisamente sopra gli sguardi attoniti di Leonardo Di Caprio ed Ellen Page? Gli effetti speciali si sono evoluti in maniera impressionante ma gli artifici visivi realizzati nel film Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock, ancora oggi, lasciano un bel gusto, una sensazione di pregevole sostanza cromatica e speculare rispetto alle sue origini, ma anche al suo effettivo sviluppo. La stessa identica sensazione si ha di fronte allo spasso visivo del film cecoslovacco Le margheritine (1966) di Vera Chytilova, un profluvio di dirompenti cromatismi che su immagini accelerate sperimentano in maniera libera e del tutto folle, in piena e ricca assuefazione anni ’60, un collage di derisori contrappunti disorganizzati e schizzati in frammenti di un inaudito eppure florido balletto femminista annacquato nel nonsense.

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Lo spettatore auditivo è generalmente più attento alle minuzie, riesce a calibrare meglio le sfumature, conglobando nella sua psiche sia le suggestioni visive che gli interventi auditivi. Questo spettatore è generalmente attratto dai film thriller, dove il non visto e il fuori campo divengono elementi essenziali della canalizzazione della suspense, così come il silenzio che per lui è musica. Suoni, rumori, ritmi dominano, senza prevaricare, sugli aspetti visivi. Un film come L’esorcista (1973) di William Friedkin, ad esempio, lo farebbe sobbalzare dalla poltrona e condizionerebbe fortemente il suo giudizio, molto probabilmente in positivo. Questo tipo di spettatore si aspetta di ricevere impulsi dal film e vuole essere scosso oltremisura, in sostanza, gli si deve terremotare la visione.

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Lo spettatore cinestesico è il punto d’incrocio e di fusione di ambo le fasce di appartenenza. Lo spettatore perfetto, quello pronto a vivere all’interno dei film, nei suoi cinema, quello che non si nasconde dietro alle emozioni (motivo per cui va, appunto, al cinema, cioè per emozionarsi) e che riesce a viverle nella maniera che gli è propria, aprendosi incondizionatamente a tutti i sensi, alle sensazioni di caldo ma anche a quelle di freddo, alle sfumature tenui e dolci e alle asperità stilistiche, alle superfici piane e lisce e a quelle grevi e ruvide, fino alla fusione con i profumi o le puzze, in un’abile concertazione con gli aspetti olfattivi. Privilegerà, molto probabilmente, i film muti, quelli attenti al linguaggio del corpo, dei segni, quelli che non si dimenticano del paesaggio, degli spazi, lasciando filtrare tutta la luce e anche le ombre.

Tramite l’approccio cinestesico, si andrà al cinema per educarsi, nel tentativo di far emergere tutto il potenziale nascosto della persona. In questo senso, certi film, specie quelli che appaiono come nuovi ad ogni ripetuta visione, possono funzionare meglio di qualsiasi terapia.

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