Robin Wright (Robin Wright Penn che interpreta se stessa), nota attrice di Hollywood, vive in un hangar con due figli, dei quali Aaron (Kodi Smit-McPhee) è vittima di una rara sindrome che potrebbe renderlo presto cieco, oltre ad essere già in parte sordo. Riceve una proposta rivoluzionaria dal suo agente Al (Harvey Keitel) che tramite la Miramount (aggregazione tra Miramax e Paramount), capitanata dal potente uomo d’affari Jeff Green (Danny Huston), viene convinta a vendere la propria identità cinematografica; verrà scansionata, in cambio di una cospicua somma di denaro e della promessa di mantenimento del proprio alias digitale giovane per l’eternità, in ogni film, anche in quelli più commerciali da lei precedentemente rifiutati, ed è così che perde il controllo sulla propria immagine. Il contratto ha validità vent’anni, dove a dominare saranno solo le multinazionali e le case farmaceutiche. Alla fine del contratto, qualcosa nel mondo è cambiato e in peggio, lo annunciano ad un congresso di quell’osannato futuro. Gli alias digitali potranno essere consumati, o goduti che dir si voglia, tramite una formula chimica.
Ispirato al romanzo “The Futurological Congress” di Stanislaw Lem, il nuovo film di Ari Folman (l’apprezzatissimo Valzer con Bashir) cattura genialmente l’essenza del testo dello scrittore di fantascienza russo, scritto nei tardi anni sessanta, sulla scienza e la medicina che hanno il pieno controllo sulla vita delle persone a partire proprio dalle emozioni che li identificano meglio, come l’amore, la gelosia, la paura, i desideri; poi da quel contenuto ci innesta un’acuta rifrazione sull’industria cinematografica, dove l’evoluzione della tecnica, dal 3D al motion capture, fino all’animazione in rotoscope (la stessa che utilizza il regista israeliano in questo suo film) rischiano seriamente di soppiantare gli attori in carne e ossa. Tutto ciò si riflette sulla protagonista Robin Wright Penn, diva sul viale del tramonto, che all’ossessione per l’eterna giovinezza abbina il desiderio di risoluzione dei problemi di salute del proprio figlio in un mondo distopico in cui tutto può essere consumato con estrema facilità, in una reiterazione del consumo (psicochimico) e del piacere della visione senza più contenuti, dove la memoria va a confondersi con la scomposizione infinita delle identità. Girato con una tecnica mista, animazione rotoscopica e live-action, “The Congress” è uno stupefacente film che oltre a trattare tutti questi temi con assoluta profondità si avvale di un impianto visivo magnificente, dove la combinazione di reale e animato genera qualcosa d’ipnotico in grado di conferire l’assoluta libertà insita nella freschezza di un capolavoro senza tempo. Folman, oltre ad essere bravo, sa come lavorare sulle emozioni e grazie alla collaborazione con l’animatore Roli Nizan e con il compositore Max Richter (il suo miglior lavoro per il cinema, quello certamente più sentito), commuove senza mai sciogliersi del tutto nella misura in cui riesce a lavorare anche sull’umorismo per non caricare la terribile prospettiva su cui è fondata la storia del film. A fronte di questi basamenti, diviene anche una riflessione sull’impossibile rimozione della memoria, sul danno dell’immaginario dell’industria dello spettacolo che lavora perversamente sulla mitologia deforme dell’eterna giovinezza e un futuristico appello nostalgico al vecchio cinema che abbiamo imparato a conoscere e ad amare. Fino a che punto potremo innamorarci ancora e ancora più volte delle proiezioni di quegli attori che in carne e ossa ci hanno fatto sognare? E in fondo quanto cambierebbe, se quegli stessi attori in carne e ossa non li abbiamo mai visti di persona? “The Congress” è fatto anche di emozioni in carne e ossa, Robin Wright Penn è brava e ancora più bella, Harvey Keitel una volta tanto fa tenerezza e c’è anche Paul Giamatti che non sfigura mai negli innumerevoli ruoli minori della sua carriera (interpreta il dottore che ha in visita il figlio della protagonista). E se a tratti sembra di potersi perdere nei multiformi scenari dai tratti lisergici, data anche la complessità dei temi nella maniera con cui sono sviluppati, più che trattati, sono i brividi delle emotività pulsate ad arte a lasciare il segno, perché magicamente cesellate in quei medesimi scenari.
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