Cenni Biografici
Henri-Georges Clouzot (Niort 1907 – Parigi 1977), è al pari di Georges Franju (Fougères 1912 – Parigi 1987), un autore. Prima di tutto, bisogna mettere in chiaro questo concetto. Non si tratta certo di mestieranti.
Clouzot nasce come sceneggiatore, Franju come documentarista.
Franju (che studiò scenografia), fonda nel 1936, insieme con Henri Langlois, la Cinémathèque Française, il primo archivio di film in Francia. Clouzot tenta di fare qualcosa di molto lontano dal cinema, studia scienze politiche e vuole entrare in Marina, cosa a cui deve rinunciare per via di un difetto alla vista, e trascorre cinque anni in sanatorio; lavora inizialmente come giornalista e diviene supervisore per una compagnia cinematografica berlinese negli anni Venti, il periodo delle innovazioni tecniche in territorio tedesco. Tra i suoi film più significativi: L’Assassin Abite au 21 – L’assassino abita al 21 (1942), Le Corbeau – Il corvo (1943), Quai des Orfèvres – Legittima difesa (1947), Le Salaire de la Peur – Vite vendute (1953), Les Diaboliques – I diabolici (1954), La Vérité (1960).
Franju ha una formazione più prettamente cinematografica, studia scenografia teatrale, e si fa le ossa con alcuni cortometraggi, esordendo nel 1934 con Le métro, per arrivare poi ai primi documentari, come lo sconvolgente Le Sang Des Bêtes (1949), senza dimenticare l’omaggio al grande inventore dei trucchi agli albori del cinema, Le Grand Méliès (1952), dedicato appunto a Georges Méliès. Tra i suoi film: Hotel Des Invalides (1951), La Tête Contre Les Murs – La fossa dei disperati (1958), Les Yeux Sans Visage – Occhi senza volto (1959), Pleins Feux Sur L’assassins – Piena luce sull’assassino (1961), Judex – L’uomo in nero (1963).
Specialisti in Nero
Due registi dai percorsi differenti che giungono ad un punto d’incontro in un periodo in cui per il cinema francese iniziavano ad affacciarsi quei grandi autori del rinnovamento delle idee e delle forme, fra cui vi erano compresi gli artefici del realismo poetico (e in questo caso il modello è Quai Des Brumes – Il porto delle nebbie, del 1938, di Marcel Carné, emblema anche del cosiddetto amor fou, che prenderanno a prestito tanti produttori e registi nel noir americano del grande decennio degli anni Quaranta).
Il film di Carné è un esempio perfetto che calza a pennello, tanto da creare facilmente un incastro con il cinema di Clouzot e in parte con quello di Franju. Ambienti sordidi di periferia, persi e conchiusi in sentimenti e situazioni claustrofobiche di follia. Ma nel caso dei due registi in questione non vi è identificazione con alcun eroe tragico. La loro visione è più generale, e coglie l’essenza del gioco bizzarro dell’essere umano alle prese con dilemmi che non mettono più in secondo piano gli uomini e le storie, bensì sconfinano nelle caratterizzazioni della loro totalità di esseri umani imperfetti, e lo fanno talvolta anche in maniera grottesca. La ricerca e l’ossessione della crudeltà, il nero situazionale degli ambienti e dei personaggi, tutti alle prese con misteri e segreti inavvicinabili. Il noir si fa più insinuante e serve da modello per gran parte della produzione successiva americana, si pensi solo alla crudeltà nella rappresentazione dei legami fra i personaggi in film come The Big Heat – Il grande caldo (1953) di Fritz Lang, oppure The Bad Seed – Il giglio nero (1956) di Mervyn Le Roy (dove in questo caso l’artefice delle malefatte è addirittura una bambina). Temi su cui gioca Alfred Hitchcock, con il suo humour britannico, specie nei film della prima parte della carriera, dove a volte il black humour prevale sulla ferocia dei temi stessi, come in The Trouble With Harry – La congiura degli innocenti (1955), o traspare persino da film più neri come Spellbound – Io ti salverò (1945), il film di Hitchcock che pone più di altri, come modello di riferimento, il cinema di Clouzot (in particolare Il corvo). L’influenza di Clouzot si protrae nel tempo e genera un emulatore più prolifico ma non sempre efficace nel connazionale Claude Chabrol, raffinato cesellatore di psicologie provinciali e cittadine, in un recupero cinico dei rapporti dentro l’effimero e il crudele delle convenzioni borghesi. Un modello su come portare lo sberleffo surrealista di Luis Buñuel all’estremo, desaturandone la componente ironica e grottesca dei personaggi. Il cinema di Clouzot, Franju, e in seguito di Chabrol (il suo L’Enfer è stato girato sulla base di una sceneggiatura di Clouzot, di un film non concluso e girato in parte nel 1964), ci porta dentro ambienti e storie di personaggi senza pietà, totalmente soggetti alle infime tentazioni dell’inganno e del peccato mortale. Ma entriamo meglio nelle brume oscure dei meandri dei racconti di Clouzot (sceneggiatore dei suoi film), e di Franju (sempre vicino al documentario, anche per quel che riguarda i lungometraggi).
Nel film di Georges Franju, Piena luce sull’assassino, una delle attrici protagoniste dice ad un certo punto del film: “Jeanne, come ti sta bene il nero”. Ecco, in questa frase vi è racchiusa l’essenza del loro cinema. Vale a dire, il nero sta addosso ai personaggi che a loro volta lo contengono, ossia, ne contengono l’essenza dannosamente divorante del male.
Nel primo film di Clouzot, L’assassino abita al 21, c’è addirittura una comunità di assassini nascosti all’interno di un albergo, dietro ai loro vizi, alla loro vanità, alla ferocia (dell’assassinio che apre il film ne prenderà esempio persino Dario Argento, con la soggettiva spiazzante dell’omicida nel mezzo di un esterno gelido e nebbioso).
Clouzot è un acre moralista, Franju un alfiere della violenza intrisa di un’insolita emotività.
Ne Il corvo di Clouzot, la provincia francese è presa di mira da alcune lettere minatorie scritte da uno sconosciuto che si firma Le Corbeau. Il maligno, annidato nelle fosche trame del popolo, genera omicidi e suicidi a ripetizione, in una catena che sembra non avere fine, e il colpevole è la persona più impensabile e apparentemente indifesa e, quindi per questo, fuori dai giochi. Un po’ come accade in Piena luce sull’assassino di Franju, dove in un castello si nasconde un assassino che mina i propositi di caccia alla ricca eredità da parte degli occupanti la tetra dimora, per via della morte del barone possidente la stessa. Due film, questi, caratterizzati da una certa schematicità e apprezzabili più che altro sotto l’aspetto della sceneggiatura.
In Legittima difesa, premiato a Venezia nel 1947 per la regia, l’intrigo si annoda attorno ad una banale vicenda di amore e vendetta, curata nell’ambientazione e innovativa per quel che riguarda l’umanizzazione dei personaggi, ma troppo letterario negli esiti.
Clouzot dimostrerà anche di saper evadere dal solito cinismo, con Le Mystère Picasso – Il mistero Picasso (1955), un film sulla pittura nel suo farsi, e al contempo un grande omaggio ai geniali quadri del pittore. Ma è con Vite vendute e I diabolici che giungiamo al cuore del cinema del regista. Inizia anche la collaborazione con la futura moglie Véra Gibson-Amado poi trasformata in Clouzot, attrice nei due film, e poi sceneggiatrice in La verità, premiato con l’Oscar come Miglior Film Straniero.
Vite vendute, premiato a Cannes con la Palma d’Oro e a Berlino con l’Orso d’Oro nel 1953, è la rappresentazione silenziosa ed esplosiva di un inferno in terra, la rappresentazione di un’umanità dolorosamente in conflitto con sé stessa e con le autorità. Il trasporto su due autocarri di 900 chili di nitroglicerina fino a 600 km di distanza, da parte di quattro uomini (due francesi, un italiano e uno scandinavo), disperatamente bisognosi di denaro, diviene il viaggio ultimo dei derelitti della società. Un’attenzione minuziosa ai dettagli dei veicoli, ai particolari sul materiale in trasporto e al viaggio di lavoro con le sue brevi soste, creano un’attenzione al particolare e una suspense infallibili, che hanno avuto successivamente pochi eguali nella storia, finendo per rafforzare quel tanto che basta il genere del road-movie d’implicazioni sociologiche, cosa che avverrà nel decennio successivo in America con film come Easy Rider (1969), Alice’s Restaurant (1969), Five Easy Pieces – Cinque pezzi facili (1970), e Paper Moon (1973), rispettivamente di Dennis Hopper, Arthur Penn, Bob Rafelson, e Peter Bogdanovich.
Il film è stato soggetto anche ad un remake, per la regia di William Friedkin, dal titolo Sorcerer – Il salario della paura (1977), che spettacolarizza ancora di più le caratteristiche dell’originale (prendendo come titolo italiano – un’idea buona una volta tanto in termini di traduzione – quello che era il titolo originale del film di Clouzot). Stessa cosa che accadrà al successivo film I diabolici, a sua volta soggetto alla moda del remake , per l’inutile e mediocre Diabolique (1996) da parte di Jeremiah Cechik, che ha il difetto di essere ricordato solo per la presenza della diva del periodo Sharon Stone (vedi Basic Instinct, di qualche anno prima).
L’horror rinasce nel bagno, fra le pagine del thriller, prima con I diabolici, e poi con Psycho di Hitchcock. Contribuisce anche a questo Clouzot, divergere e divagare fino ai confini del terror movie, già in parte anticipato con il film precedente, dove i protagonisti sembrano tutti avvolti da un alone nero di fatalità apparentemente casuale, simboleggiata dalla prima immagine dove alcuni scarafaggi rotolano l’uno sull’altro e vengono raccolti da un bambino, sulla terra assolata del Sudamerica (scena che omaggerà esplicitamente Sam Peckinpah, per il suo estremo inno al selvaggio del west con The Wild Bunch – Il mucchio selvaggio (1969).
Tratto dal romanzo Celle qui n’était plus (1952), l’ultimo capolavoro di Henri-Georges Clouzot, ha il pregio di concentrare in un unico film quella che è stata l’essenza del suo discorso sulla criminalità invisibile. Due donne, moglie e amante di un direttore di collegio, decidono di affogarlo e prendere in mano le redini della struttura. Due signore apparentemente rispettabili, le diaboliche del titolo originale (perché mutare il senso in quello italiano?), nascondono un segreto nell’acqua più torbida delle loro malefatte, mentre cercano di nascondere lo sporco anche di fronte ad un sospettoso anziano detective (interpretato magistralmente da Louis Jouvet). Ma il gioco ha vita breve, e quando il nodo verrà al pettine, avrà il volto menzognero della scioccante verità.
I diabolici è un thriller per certi versi hitchcockiano, ma ha il pregio di riuscire a differenziarsi dal regista inglese per un gusto insolito nel ritrarre un’atmosfera silenziosamente infida e per un ritmo lento ed insinuante allo stesso tempo.
Successivamente, Clouzot non ruscirà più a raggiungere i vertici di questi due grandi film, ma influenzerà notevolmente Georges Franju, che con il suo capolavoro Occhi senza volto (1959), andrà anche oltre il black model clouzotiano, raccontando una storia più nera del modello-principe, aggiungendo sprazzi di poesia all’interno di una veste ancora più crudele.
Gli Occhi senza volto e le Bestie senza corpo di Georges Franju
Georges Franju si divora Fantomas, Sade e Freud già dall’età di quindici anni. In seguito alla scoperta magica del cinema, inizia ad amare Fritz Lang che finisce per influenzarlo notevolmente (il suo operatore Eugène Schüfftan è il direttore della fotografia di Occhi senza volto).
Alla musica c’è un Maurice Jarre agli esordi per quel che riguarda il cinema, e riesce a donare la giusta atmosfera ad un film entrato negli annali del grande cinema nero, d’ispirazione gotica, grazie anche all’ambientazione in campagna, in un bianco e nero vellutato e sfumato nei suoi bianchi e nei suoi neri sfumati a loro volta nel grigio. Con Il sangue delle bestie del 1949, Franju entra in alcuni mattatoi di Parigi per svelarci, anche qui con l’ausilio del bianco e nero, quanto l’orrore sia vicino a noi, talvolta dietro l’angolo di casa. Tutte quelle immagini di animali scannati sconvolgono nel loro impatto provocatorio, e in parte, ambiguo. Entrare in un mattatoio ed assistere a quei macelli, filmandoli, potrebbe nascondere un certo fascino nella rappresentazione dello spettacolo di morte. Il sangue è nero come quello del volto di una delle ragazze rapite del film di dieci anni successivo ad esso, Occhi senza volto, una delle giovani sottoposte ad intervento da parte del chirurgo plastico, impazzito a seguito dell’incidente accaduto alla propria figlia che ne ha deturpato il candido volto.
Pur dichiaratosi estraneo alla Nouvelle Vague di quegli anni, Franju ne contiene gli elementi provocatori, soprattutto in termini di scrittura per quel che riguarda lo studio delle psicologie insolite di personaggi ambigui ed inquietanti. D’altronde Franju non amava molto girare per le strade, in contrasto con i grandi Godard, Truffaut, Resnais, Rohmer, preferendo i teatri di posa perché riuscivano a donare al film la giusta atmosfera claustrofobica e si sentiva per questo più vicino ai cineasti del Fronte Popolare come i vari Carnè, Duvivier, Clair, e in parte Renoir.
In Occhi senza volto l’assistente del chirurgo Genessier, è Louise, intepretata da Alida Valli, una donna che ha il compito di trovare le cavie da cui prelevare il volto da trapiantare, e così si reca regolarmente a Parigi per adescare la giovane dal volto giusto. Seguono una serie di rapimenti e di esperimenti che non hanno successo e che rendono la situazione insostenibile, anche perché la polizia inizia ad insospettirsi e soprattutto perché la figlia sfigurata (costretta a portare una maschera per coprire il volto), non sopporta più la situazione che la vede intrappolata in una prigione insieme con quegli stessi animali vittime degli stessi esperimenti, intrappolati a loro volta in delle gabbie.
Franju diceva che tutti i suoi film hanno il fascino, il mistero e la profondità di una nera voragine. Ma la cosa più insolita di questo film è, come precedentemente accennato, la sua componente poetica, esaltata dal finale che simbolicamente innalza il film all’aura di opera che va al di la del genere, del solito horror in cui uno scienziato pazzo fa degli esperimenti su delle cavie che si ribellano alla fine in un crescendo di orrori e misfatti. Il film, presentato al Festival di Edimburgo, ha provocato lo svenimento di sette spettatori, e pubblico e stampa ne furono scandalizzati (l’unico giornalista che ne parlò bene, perse il lavoro). Al di la delle atmosfere, a destare maggiore impressione è, ancora oggi, la scena dell’operazione del chirurgo ai danni della povera ragazza a cui viene lentamente cicatrizzata e staccata la pelle del volto dal bisturi raccolto dalle mani di lattice del dottore, con una notevole cura del dettaglio. Un horror dai tratti eterei che ha provocato e che provoca tuttora vero turbamento, al contrario delle produzioni Hammer (anche in quel caso la stampa dell’epoca ne restava scandalizzata), che al contrario puntarono tutto sui colori saturi, su scenografie gotiche di cartapesta e sull’enfatizzazione dei personaggi, specie dei mostri, privatizzati quasi del tutto del loro fascino (l’unico film, forse, ad avere lasciato il segno dal punto di vista iconico è il Christopher Lee di Horror of Dracula – Dracula, il vampiro di Terence Fisher del 1958).
Franju è un artista rivalutato nel tempo, e pochissimi libri sono stati scritti sul suo genio, più che altro si tratta d’interviste, e la preziosa e famosa collana de Il Castoro fondata dal raffinato e scrupoloso storico del cinema Fernaldo Di Giammatteo, è priva di una monografia a lui dedicata. Quindi, la riscoperta è più che altro da parte di una nicchia della critica che opera e analizza al di fuori del sistema di giudizio canonico. Ecco, si potrebbe azzardare persino un’ipotesi, cioè che Franju ha in qualche modo aiutato alcuni registi moderni e contemporanei, come Dario Argento e Quentin Tarantino ad esempio, a sviluppare quella componente pulp che caratterizzava alcuni suoi film.
Le premesse di realizzazione del film non promettevano niente di buono, e Franju disse a tal proposito: “Quando girai Les Yeux Sans Visage mi fu detto di non inserire nella storia nessun sacrilegio a causa del mercato spagnolo, nessuna nudità a causa di quello italiano, niente sangue a causa di quello francese, e niente animali martirizzati a causa di quello inglese”. E lui voleva fare un film horror!
Se Clouzot è vicino a Racine per le ombre nel cinismo dei caratteri dell’anima che è riuscito a ricreare, Franju lo è in quelle di Apollinaire, per la musicalità dei tratti simbolici ed onirici dell’assunto poetico e soprattutto per la portata innovativa (essendo stato Apollinaire, vicino a tutti i movimenti d’avanguardia d’inizio Novecento).
E un assunto finale, per un paragone niente affatto azzardato con l’operazione innovativa di Alain Resnais, L’Année Dernière a Marienbad – L’anno scorso a Marienbad (1961). Lì il castello è un’urna lussureggiante e segreta di voci di fantasmi che si librano nell’aria del tempo della memoria scandita a mò di flashback, mentre qui, in Franju, sono i corpi appesantiti dell’altrui crudele disegno a non potersi librare dal peso degli orrori della grande casa del padrone-chirurgo. Ogni singolo dettaglio del film ha una sua risonanza anche a livello musicale, come la strada di campagna, i rami degli alberi magnificamente illuminati, le automobili che si muovono lente su stradine isolate, le pellicce, il collare di velluto sul collo dell’assistente Louise, e quelli d’altra forma messi agli animali in gabbia, vittime di un sadico padrone che mostra un’incredibile formalità e freddezza a livello comportamentale (interpretato magnificamente e con grande controllo emotivo da Pierre Brasseur, il tutto sviluppato a dovere dall’ottima sceneggiatura del duo Boileau–Narcejac).
Secondo la stampa americana dell’epoca, Occhi senza volto è un attacco simbolico alla scienza, all’etica della medicina e all’uso che ne viene fatto.
Ancora oggi, Occhi senza volto lascia il segno per la sua intensità, generando sensazioni contrastanti, tipiche dei grandi capolavori della storia del cinema, superficialmente ascrivibile al genere horror, che di lì a poco sarebbe esploso in tutto il suo vigore.