The Tribe

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Esiste un istituto per sordomuti dove le regole comunitarie sono molto simili a quelle della sopravvivenza in un branco di animali. Sergey vi fa il suo ingresso e dovrà imparare a difendersi dalle storture della sopraffazione e della prepotenza. Logica vuole che egli s’integri agli altri per non farsi sopraffare e diventa protagonista di una serie di furti. Quando s’innamora di una delle due ragazze del gruppo, fatte prostituire da due dirigenti dell’istituto in accordo con alcuni ragazzi, la situazione precipita. È all’oscuro del fatto che Anna, una delle due giovanissime vittime, è destinata a finire come prostituta in Italia e che all’interno della banda le regole sono davvero troppo rigide.

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Sei mesi di riprese con attori non professionisti e realmente sordomuti, permettono al regista Myroslav Slaboshpytskiy di cimentarsi con la forma del cinema muto in maniera impressiva. Non una vaga traccia esistenzialista su personaggi che scelgono di non parlare, bensì un naturalista e crudo racconto di brutale iniziazione alla ferocia bestiale di una realtà ordinariamente primitiva, dove la mancanza di dialoghi è sostituita dalla fervente mimica senza cedimenti al sentimentalismo né al melodramma, come nella migliore tradizione del cinema indipendente americano, e da suoni e rumori che la fanno da padroni sull’intera ripartizione delle parti. Con uno stile che fa ripensare al capolavoro Elephant di Gus Van Sant, il primo film di questo regista ucraino – nato dalla concessione di una borsa di studio del Rotterdam Film Festival a seguito di un’idea maturata già da 20 anni – esplica una scentrata tensione che tuttavia si mantiene stabile lungo l’arco del film, di non molto ampolloso e linearmente corredato da situazioni d’ inammissibili vessazioni che giungono poi ad un culmine che non potrà lasciare inermi. Il microcosmo descritto come una pantomima grigia e spesso gelida della violenza, è un coacervo di ruvidezze (raramente la violenza è stata così inclemente, e il sesso così sfacciatamente audace) tra una moltitudine di animali in gabbia. Certo, l’operazione è  assai impervia, la maggior parte delle persone non conosce il linguaggio dei segni, ma in fin dei conti il cinema agli inizi aveva un proprio linguaggio che non era ancora codificato e non si avevano ancora gli strumenti adatti per comprenderlo appieno. Ora, con The Tribe si ha quasi l’impressione di essere tornati ad un grado zero del linguaggio del cinema. Un linguaggio aspro, che nel suo teso realismo offre poche concessioni alla razionalità, nessuna all’intrattenimento. Sfruttamento e sofferenza. Restano solo quelle, in pieno petto e nello stomaco attorcigliato.

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