La storia di Straight

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Il cinema è ricco di storie vere. Ma ce ne sono alcune che sono più vere di altre o che danno l’impressione di esserlo ancora più delle precedenti. Una storia è vera quando è concepibile. E tutto quel che è concepibile al cinema, può esserlo anche nella realtà, e viceversa. Vero è tutto ciò che nasce da un dato storico, che è cronaca e finzione allo stesso tempo, che è forma e vita di un vissuto che si fa storia nello stesso istante in cui è stato vissuto e viene quindi filmato, seppur dentro un atto di pura finzione. Non sempre è tutta finzione al cinema. Insegnano i film del neorealismo italiano e quelli di certo cinema indipendente americano, che a volte l’imprevisto può generare un miracolo. Non solo all’interno della babele hollywoodiana possono avvenire dei miracoli. Ce ne sono stati anche sul set di un film che proprio nel titolo italiano vuole sottolineare il fatto che si tratti di una storia vera a tutti gli effetti, di quelle che possono capitare a tutti e per le quali non ci si vede nulla di strano. Il titolo originale del film in questione è The Straight Story, la storia “dritta” o lineare, com’è lineare il viaggio che l’uomo compie, o semplicemente questa è la storia di Alvin Straight, il protagonista interpretato da Richard Farnsworth, caratterista e stuntman alla sua ultima apparizione sul grande schermo. La storia di un’impresa apparentemente impossibile, quella di un contadino dell’Iowa che all’età di 73 anni decise di attraversare alcuni Stati dell’America percorrendo 240 miglia (400 chilometri) con una falciatrice, un trattorino a misura d’uomo, una volta che è venuto a sapere dell’infarto del fratello; decide di andare a trovarlo, a costo di rischiare la vita e contro il volere di sua figlia Rose, con la quale convive (interpretata da Sissy Spacek, mentre il fratello Lyle appare solo nell’ultima scena del film ed è Harry Dean Stanton). Una storia vera, realmente verificatasi nel 1994 in America.  David Lynch decise di dirigerlo perché catturato dal commovente script scritto a due mani da John Roach e Mary Sweeney. Lynch, che aveva abituato il pubblico a tutt’altro genere di film, sorprese non poco pubblico e critica. Ma A Straight Story è una di quelle incredibili imprese che fanno pensare a Werner Herzog. Un film, come dice Lynch, che va visto come un’unica esperienza. Un film che dà la sensazione di sentire l’aria. Puro e semplice come solo le cose pure e semplici sanno rivelarsi immediatamente, belle perché perfette nella loro purezza e semplicità diretta.

Alvin Straight

Pochi film come questo hanno saputo esprimere delle emozioni profonde con assoluta semplicità e cercando al contempo di costruire quelle stesse emozioni attraverso la forma per raccontarle. Basta vedere come Lynch decide di organizzare gli spazi e di descriverli attraverso movimenti della cinepresa aerei su di una skycam. Come filmi gli alberi e le foglie che si muovono e come decide di descrivere il mondo agreste. Tutto è a noi molto vicino e tutto è perfettamente comprensibile. Ciò nonostante, quando Alvin è a metà del suo meraviglioso e speranzoso viaggio, la visione di un cervo morto in mezzo alla strada sembra richiamare i famigerati universi lynchiani e sembra quasi rimandare a Twin Peaks e agli incubi che hanno intessuto le trame di tutti i film precedenti del regista americano. Sembra essere solo un’eco di passaggio. Sappiamo che quello di Alvin è il viaggio della speranza, è consapevole del fatto che quello sarà l’ultimo viaggio della sua vita e non teme la strada, né il motore con cui la percorre dritta. Un viaggio disperato è quello degli operai avventurieri nel capolavoro di Henri-Georges Clouzot Le salair de la peure – Vite Vendute (1953), che affrontano un viaggio all’inferno su tutte strade dissestate con due camion scoperti carichi di una tonnellata di nitroglicerina, necessaria per poter spegnere un pozzo petrolifero in fiamme, a seicento chilometri di distanza. Tutto per il dannato denaro, per la sopravvivenza. Alvin Straight non ha più alcun interesse nel denaro, ha vissuto la sua vita come doveva e forse voleva, e ora vuole solo rivedere quel fratello che non vede e con cui non parla da diversi anni. Incontra diverse persone, a volte si ha l’impressione di rivedere immagini speculari a Easy Rider. La gente che incrocia nel corso del suo lungo cammino il sig. Straight, è solidale. Dal gruppo di ciclisti alla giovane ragazza scappata di casa perché incinta, dall’ospitale coppia di coniugi alla buffa coppia di meccanici gemelli, fino a un sacerdote.

scarecrowL’America brutale rappresentata in Easy Rider (1969), o quella desolata del sottovalutato Scarecrow – Lo Spaventapasseri (1973), qui lascia il posto ad una pacificazione che è data dal contatto intimo e spirituale dell’uomo con la natura, un contatto che se preso con cautela e non dissennatamente (vedi lo strepitoso Deliverance – Un tranquillo week-end di paura), può solo apportare salubri benefici. L’umanità rappresentata nella sua semplicità e genuinità fa pensare ad un’altra operazione unica nella storia del cinema, quella del cineasta afroamericano Charles Burnett col suo capolavoro neorealista Killer of Sheep (1977), dove ogni cosa, come in Straight, sembra procedere secondo il corso naturale della vita, che se presa con assoluta semplicità e soprattutto con calma può ancora stupire, anche nelle difficoltà in cui sono costrette a vivere le famiglie magnificamente raccontate nel film di Burnett. Il viaggio di Straight, che guida piano, è dentro l’epopea del cinema “on the road”, dentro e fuori l’America, ai margini del grande sogno. Non c’è un vero e proprio sogno, ma tanta bellezza, verrebbe da dire la grande bellezza del creato, parafrasando il film di Paolo Sorrentino, che del resto ha ammesso di essersi ispirato a questo splendido capolavoro di David Lynch per il suo This Must Be The Place (2011). Non c’è niente di complicato in A Straight Story, solo un obiettivo da raggiungere, scopo di quasi tutti i film, il viaggio dell’eroe che non ha nulla da perdere, ma che in questo caso può anche tornar sconfitto, tanto la bellezza è quella che è, e non morirà mai. Alla fine bastano due parole ai due fratelli che finalmente alla fine si rivedono fieramente commossi sotto le stelle. Parole di stupore e silenzio. Non c’è mai stato niente di più puro nella storia del cinema e forse è per questo motivo che si può azzardare a dire che si tratta del film più bello che sia mai stato realizzato.  Dimostrazione che al cinema non serve necessariamente lo spettacolo d’alte vanità per scolpire l’immaginario e far venire voglia di cimentarsi con questo incredibile mezzo di espressione artistica. Si può partire anche da storie vere, vicende derivate dalla vita reale o che ancora meglio danno l’impressione di essere più vere del vero. Abdellatif Kechiche, con La vita di Adèle (2013), fa un’operazione di questo taglio, lascia che la verità e la sua similitudine di vita esplodano dal contatto con l’umanità di due adolescenti che compiono il miracolo della creazione artistica attraverso i loro innocenti corpi e la loro intrinseca voglia di affetto, d’amore,  lontano dalle barbarie dei potenti dello sporco mondo industrializzato che probabilmente contribuì all’alienazione allucinante di Henry Spencer nel primo film dello stesso Lynch, Eraserhead (1977), rappresentazione squallida e virulenta di quel mondo ormai disumanizzato. Ecco, The Straight Story ne è l’esatto opposto, e l’opera è dello stesso identico regista di una volta. Un regista consapevole dei propri mezzi che poi sceglierà di fondersi e confondersi con i propri e gli altrui incubi con i successivi film, Mulholland Drive (2001) e Inland Empire (2007). Volendo leggere o ascoltare Lynch in una delle sue interviste, si potrebbe pensare che anche le ultime siano storie vere. Scoscese, scomode, eppure dritte, vorticose, virtuose, assolutamente non lineari, ma che tornano sempre al primo stadio di conoscenza o coscienza, vita. Dritte da quelle strane ma vere parti del tutto.

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