Io sono Stanley. Sì, lo so non è un nome semplice. Fa pensare all’idea di stare fermo, ma anche di saltare, lì, là, oltre. Era il 2001 quando ho deciso di affrontare questa odissea nello spazio. Era tutto meticolosamente organizzato nei minimi dettagli. Avevo trascorso ore al telefono con degli organizzatori della Nasa, dopo averci pensato su per settimane. Mia figlia Vivian, specie dopo la morte di Anya a causa di una rapina a mano armata sul posto di lavoro, era in ansia già alla notizia di un banale appuntamento informativo. Adesso non ritrova più il padre, colui che ha sempre desiderato orizzonti di gloria, conscio del rischio di dover affrontare la paura e il desiderio stesso di vincerla. Ho imparato a muovermi da solo, l’istruzione me la sono edificata con le mie stesse mani. Facevo il fotografo, ho ancora la mia prima macchina fotografica, nonostante si sia usurata. “Ehi, Stanley, look at this! Look at this!”, mio padre diceva sempre. Poi, il giorno del mio compleanno mi regalò una macchina fotografica. Cosa dovevo guardare quando mi chiamava con insistenza? Ma la rivista Look! L’adorava. Mia madre è una casalinga appassionata di scacchi come me che m’introdusse nell’ambiente del giornalismo. Sono stato sposato tre volte, ma adesso che sto per tornare dallo spazio sono in ansia, perché non sento mia moglie e mia figlia da troppo tempo ormai. Tutto si è dilatato nella mia mente. L’altra notte ho sognato di trovarmi a tu per tu con Barry Lyndon in una campagna irlandese, sotto il tiepido sole di un giorno del lontanissimo Settecento. Il mio amico Osamu Tezuka mi ha rassicurato, dicendomi che atterreremo senza alcun pericolo. Lui si rilassa disegnando fumetti. Non so come possa riuscirci. Eppure improvvisamente una calma invade il mio buon cuore. Dallo spazio una strana luccicanza s’infiltra nelle segrete della navicella, percuotendola. Sembra tutto un sogno. A tratti, ho come la sensazione di trovarmi all’interno di un albergo, senza via d’uscita. Grandi porte illuminate da luci al neon sono chiuse a chiave. Lunghi corridoi deserti e silenziosamente ostili alla presenza umana. Poi una donna dalla lunga lingua mi sveglia dal sogno, ma non del tutto dal sonno. Una splendida donna dai capelli castano chiaro accanto a me. Sembra quasi mia moglie da giovane, ma ha le sembianze della Lolita di Nabokov. Quando leggo un libro generalmente riesco a visualizzare davanti ai miei occhi tutti i personaggi principali. È questo il caso della bella Lo. Così la chiamavano, ed era accanto a me con la sua lingua calda, nel tentativo di dimostrarmi tutto il suo stranamore di ninfetta. Mio padre era un dottore, prima che si ritirasse in pensione. Mai forse come in questo momento qui avrei bisogno di lui. Immagino mia madre chiusa in camera a disperarsi fazzoletti alla mano. Ma così non è. Mi starà aspettando alla Nasa in compagnia di Christiane e Vivian. Sono diventato famoso ormai. Così quando riapro gli occhi, invece della bella Lo, trovo Osamu che se la ride, con in mano uno di quegli aggeggi chiamati “clockwork orange”, dai quali gli ingegnosi giapponesi riescono a farvi uscire puro succo d’arancia. Ed è anche buono. Ne bevo un po’, trionfante. Abbiamo cominciato la discesa verso il pianeta Terra. Da lontano è più bello che mai. Nella discesa comincio a sudare freddo. Osamu prende una giacchetta anche per me. Sembra piena di metallo. Mi sento come un superstite di guerra che tenta di divincolarsi dal freddo bacio di un assassino, già pronto col coltello in mano a prenderti alla sprovvista dalle parti del collo. Il mio collo. Non quello di Spartacus, un bastardo qualsiasi, di quelli che pensano di stare ancora ai tempi di Napoleone. Mi saluteranno come un condottiero vecchio stampo. Un padre volante pronto a rimetter piede sulla Terra. Si avvicina. Osamu riprende i controlli della navicella assieme agli altri. Chiudo gli occhi, ripensando a tutta la mia vita. E mi sembra di averla vissuta come un’odissea. Non ricordo più la disposizione della mia camera da letto. Osamu torna con una maschera tra le mani. Dice che mi aiuterà a ricordare se la indosserò. Coprendomi il volto, rivelerà il mio vero volto. Faccio quel che suggerisce. Così la indosso e non vedo più niente. Solo una luce che mi appare davanti. Una luce che da lontano si avvicina sempre di più, fino a schiarire tutto. Poi un forte rumore, una musica assordante che copre ogni cosa. Urlo e non mi sento. La maschera se ne sta lì, egoisticamente appiccicata al mio volto. Sento che è l’ultimo tassello da scontare nel corso di questa interminabile odissea. Sta per finire e ho sonno. Un’odissea senza aver dormito mai.