Cosa faranno gli uomini quando non saranno più compresi? Pensavo questo mentre ero ad una conferenza davanti ad almeno trecento persone. Quando non saranno più compresi sarà come cessare di vivere ancor prima di morire. Mi doleva la testa al pensiero. Nella folla c’era chi mi faceva strani gesti e c’era chi applaudiva a qualsiasi sillaba. Reclamai così il silenzio assoluto. Le parole importanti sarebbero arrivate nei minuti successivi. E così fu. La conferenza si tenne nell’aula India di un imprecisato palazzo di uno strano quartiere di Roma. C’era la mia mamma in prima fila. Aveva gli occhi fissi su di me, come sempre del resto. Accanto a lei un accattone con un pezzo di pane tra le mani. A tratti sorrideva, solo a me. “Bisogna riportare la calma laddove la gente non ha ciò che spetta loro. Come togliere l’aria ad un morente. La battaglia è innanzitutto spirituale, prima ancora che politica. Bisogna tornare a voler bene al piccolo. Si fanno più figli perché la gente si disprezza, e difatti crescono male. Disprezzando il vicino, non può nascere un buon rapporto. I figli sono come i fiori, se coltivati male muoiono presto, e non dobbiamo permettere che questo accada. Presa di coscienza. Bisogna opporre a questo una nuova resistenza, quella del pensare che in realtà non ci sia più alcun complotto, specie se lasciamo la tv spenta e torniamo a pensare al cinema, viaggiando in bicicletta col cellulare spento e un buon libro in tasca. Allora sapremo apprezzare meglio lo squallore che circonda le nostre vite che se non cambiano finiranno per rappresentare sempre più la decadenza opulenta che abbiamo finito per accettare di buon grado, convinti di aver avuto il meglio della società. Quando si è scoperto che quel meglio era al contrario il peggio allora ci siamo allontanati innanzitutto da noi stessi, e poi dagli altri, arrivando a prenderci a spintoni, generando disequilibri con il solo scopo di arrivare primi. Primi per quale gara? Quella della corsa alla decadenza opalescente che finge brillando invano. Non c’è stata sufficiente voglia di scandalizzarsi, di bestemmiare, se non per partite di calcio alla domenica o per i fallimenti altrui di cui si è responsabili. Il diverso è colui che può fornirci una pietra angolare diversa riguardo la concezione che abbiamo della società in cui sguazziamo con i coglioni a terra. Eppure lo disprezziamo a livello di un immigrato, vittima a sua volta di un intero squallido sistema. Insisterei sullo squallore, perché è quello che ci ha fatto perdere di vista il senso della vita. Una vita che avrebbe dovuto essere spesa per il prossimo, quindi per noi stessi. Siamo oltre la retorica, la stupidità, l’ignoranza. Il conformismo che preannunciai sia dalla parte della sinistra che della destra, se è così che ancora vogliamo definire queste fazioni amiche da tempo, è ormai degenerazione morale. Il danno più grande lo abbiamo già subito, ora tentano di sotterrarci. Ma non glielo permetteremo e per far questo occorre lasciare spazio al nuovo, al diverso”.
Alla pronuncia dell’ultima parola, accorse un boato in sala. Un applauso di almeno tredici minuti. Mi commossi un poco. Come ai tempi degli appunti per un’Orestiade Africana per il quale tenni una conferenza particolarmente accesa che si trasformò in una sorta di comizio elettorale. Sentivo per la prima volta l’amore del popolo. Tornai a casa con mia madre scortato dagli agenti. La folla voleva abbracciarmi. Alcuni davano l’impressione di voler scambiare degli abbracci di grande empatia umana. Una volta giunti a casa, mi ritrovai da solo nel mio studio. Mia madre mi diede la buonanotte aprendo sommessamente la porta che poi accostò. L’uccellaccio impagliato che troneggiava sulla scrivania sembrava volere farsi beffe della mia capacità di anticipare ogni sua mossa. Sorrisi beffardo. Mi alzai per dare un’occhiata alla sterminata biblioteca. Posai l’occhio sul Vangelo secondo Matteo. Fui quasi tentato di prenderlo tra le mani, nonostante non volessi leggerlo. Poi mi sedetti sul letto e sospirai. Quanti avranno capito veramente quel che ho cercato di comunicare? L’indomani mi sarei sentito di nuovo solo come tanti altri diversi. Bisognerebbe farne uno al giorno d’incontri. Ma avevo davvero voglia di leggere. Così mi avvicinai di nuovo alla biblioteca e presi quattro libri: I racconti di Canterbury, il Decameron, Salò o le 120 giornate di Sodoma e Il fiore delle mille e una notte. Indeciso, mi orientai sui racconti, era già tardi e volevo rilassarmi con qualcosa di non troppo pedante. Nonostante fosse andata bene la conferenza, mi sentivo incazzato. Avrei preferito un uccellino grazioso sulla scrivania, piuttosto che quell’uccellaccio del malaugurio che sembrava sempre osservarmi, qualsiasi cosa facessi. Cominciai a leggere il primo racconto ma fui catturato dalla finestra semiaperta. Entrava una brezza fresca e leggera. Ripensai ad una sorta di teorema che anni addietro applicai al movimento delle nuvole. Perché in fondo che cosa sono le nuvole se non una forma di terra vista dalla luna? Terra in movimento. Ma in basso era diventato tutto un porcile. La differenziata non ha mai funzionato veramente. Bisognerebbe imparare a differenziare bene anche i ladri dai futili prepotenti. Anche se la seconda categoria è ancora superiore alla prima contrariamente a quanto la gente pensi. Solo che i ladri si sono sostituiti alle guide e allora lì la musica cambia. Stoppai per un attimo la mente e tornai di nuovo sul letto con il libro di racconti. Tentai di proseguire ma fui di nuovo interrotto da mia madre che entrò cautamente in camera dicendomi che a quell’ora di notte c’era Medea al telefono. Medea era una donna di una bellezza spropositata, esagerata direi, che si esibiva di tanto in tanto in spettacoli di magia. Una volta ebbi il piacere di vederla dal vivo e fu un incanto. Disse che voleva venirmi a trovare per parlarmi di un progetto. Al che io le dissi: “Che genere di progetto?”. Un progetto per cambiare la società con l’ausilio dei suoi poteri magici. Era davvero brava, ma l’idea, di per sé allettante, mi lasciava perplesso. Le risposi che ci avrei meditato, pregandola di lasciarmi andare a letto perché si era fatto tardi ed ero stanco. Inoltre la sera a cena avevo mangiato ricotta e mi era anche un po’ rimasta sullo stomaco, ma non avevo la forza nemmeno di farmi una tisana digestiva con erbe raccolte sui campi del Friuli. Pensai di riprendere il racconto in un altro momento e di rilassarmi con il porno che mi ha regalato il mio amico Teo, poco prima di partire per Hollywood per girare quel kolossal che inseguì per gran parte della sua vita. Ma optai direttamente per il letto. Diedi un bacio sulla fronte a mia madre che non riusciva a prendere sonno e nel frattempo si era messa a lavorare al cucito. Quanto coraggio mia madre! Tornai così in camera mia, mi spogliai e mi guardai per qualche secondo, nudo, allo specchio. Ogni volta che lo facevo riuscivo a notare dei piccoli mutamenti nell’aspetto e nelle dimensioni del pene. M’infilai il pigiama caldo per finire sotto le coperte, non prima di aver chiuso la finestra. Anch’io non riuscivo a prender sonno. Qualcuno poi bussò alla finestra. Per un attimo ebbi come un flash nella mente dell’Edipo Re. La mia mente da regista a volte fa strani scherzi. Ma fuori non c’era nessuno. Allora quando la finestra fu colpita, di nuovo, da un sassolino, capii che oltre lo steccato c’era qualcuno che stava cercando di farsi notare e che sicuramente cercava una maniera per comunicare col sottoscritto. Aprii di nuovo la finestra, perché non riuscii a vedere nessuno e fui colpito in pieno viso da una sassata scagliata con una tale fermezza e violenza da farsi sentire con tutto il suo peso sulla mia povera faccia. Non ebbi il coraggio di rialzarmi. Le sassate finirono. Era giunto il tempo di morire e fu in quell’istante che ripensai alla mia vita violenta, spesa sul campo a subirne, prima di potermi difendere attraverso l’arte. Non cercai di svegliare mia madre che finalmente era riuscita a prendere sonno. Me ne uscii di casa a passi felpati col sangue stampato sul volto. Una macchina, spenta e al buio, mi attendeva sul viale di fronte la mia abitazione. Qualcosa di oscuro mi attendeva là fuori, me lo sentivo, me lo aspettavo da tempo. Ma prima di uscire passai in cantina e presi un grosso bastone simile ad una mazza da baseball lasciatami in eredità da mio padre. Uscii con quella. C’era un silenzio assordante. Nella mia testa rimbalzavano ancora le eco degli applausi del giorno prima. La macchina fu messa in moto, per essere portata via lontano da me. Nonostante tutto, impugnai con decisione la mazza, scoprendo il volto insanguinato senza alcuna vergogna. C’erano tante macchine sul viale. Si accesero diversi fari. Alzai la mazza. “Non sarà la religione del mio tempo né il vostro petrolio di merda a lasciare che io affoghi nella vostra cacca”. Nessuno partì. Qualcuno aveva appena acceso il motore. Mia madre si era svegliata di nuovo ed era già sulle scale a pregarmi di tornare in casa: “Pier Paolo mio che succede? Vieni via di lì, la notte è brava a coglierti alla sprovvista quando meno te lo aspetti”. Non voleva guardarmi morire. Era troppo presto. Fu così che tornai in casa. Le macchine spensero i motori per restare sul viale ad aspettarmi. Ma la notte sarebbe presto finita, mentre io avevo ancora tanti progetti. Piansi, nel lungo assolo di un abbraccio che solo una madre come lei può lasciare.