Conobbi Ozu pochi anni dopo la fine dei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Andai nella sua casa a Tokyo nel 1949 e fui rapito immediatamente dalla disposizione degli arredi interni, tutti rivolti verso l’esterno e meticolosamente in ordine. Mi accolse la moglie, mentre lui era intento a preparare del buon saké dal gusto unico. Quando entrai nel suo studio fece tre inchini prima d’invitarmi a sedere a terra sul favoloso tappeto. Subito un’atmosfera di quiete contemplativa invase il mio stato ansiogeno, neutralizzandolo. Provavo una curiosa forma di pace interiore che non avevo mai provato in Occidente. Disse che se ne era appena andato Kogo Noda il suo sceneggiatore di fiducia. Dovevamo parlare dei suoi primi film, di quei film che sono stati distrutti e andati persi durante la guerra. Avevo l’impressione che non volesse parlarne davvero e che non vedeva l’ora che io me ne andassi non appena pronunciai la fatidica parola intervista. Si fece scuro in volto e ordinò alla moglie dell’altro saké. Era un buon bevitore che apprezzò l’alcol precocemente. Raccontava che aveva scelto inizialmente di fare l’aiuto regia perché così aveva l’occasione di bere. Raccontò che a scuola fu bocciato, ma che sviluppò una profonda passione per il cinema già allora. Cominciai ad appuntare. Mentre lo vedevo parlare dei suoi primi amati film lessi uno scoramento nel suo lucido sguardo. Il mio viaggio a Tokyo era stato meno tranquillo del solito, e ora, nonostante la ritrosia di Ozu nel voler esporre ciò che realmente è accaduto ai rulli dei suoi film, mi sentivo quasi in pace con un mondo in guerra. Parlava e attaccai anche il registratore che avevo dimenticato nella borsa. Cominciò per durare almeno un’ora. Contemplavo lui allo stesso modo con cui avevo iniziato a contemplare i suoi film. L’ultimo in particolare, Tarda primavera, mi rivelò un Ozu più personale, dalle ricche sfumature psicologiche. Pensai che glielo avrei dovuto dire ma bolliva di ricordi affranti e così lasciai che il suo fiume di fluttuanti parole scorresse. Parlò persino dei suoi giorni di gioventù, dei ricordi più belli, delle sue scorribande di bambino che non si fermava mai, nato e cresciuto a Tokyo ma innamorato dell’America e del cinema americano, specie delle commedie di Lubitsch. Parlò di una signorina con la quale amava passeggiare allegramente per le vie del centro della città prima che la guerra sconvolgesse il mondo intero, della vendetta dello spirito di Eros poiché credeva ai fantasmi (ma su questo non approfondimmo per mio naturale timore), e poi mi raccontò un giorno anche di aver incontrato la famosa signorina con la barba che si divertiva a spaventare i bambini del coro di Tokyo e persino le dispettose sorelle Munekata. Insomma, l’argomento principale della conversazione riguardo le copie andate perse o distrutte dei suoi film passò presto a divagazioni nostalgiche riguardo la sua gioventù. Parlò di diverse donne, mogli di una notte conosciute a giornate di commemorazione di morti in assurde retate del tempo. Si soffermò sul fatto che tutte le donne dovrebbero essere amate, e prima di loro le madri. C’era dell’ironia, come nella barzelletta della signorina con la barba, derisa da tutti, eppure brava a letto. Mi raccontò la favola delle erbe fluttuanti come se fossi un bambino e anche delle notti alcoliche chiuso nelle più infime locande di Tokyo. Poi mi chiese se io fossi figlio unico. Intavolammo una conversazione sul valore della famiglia e sull’appartenenza ad essa, tema che traspare da tanti suoi film. Diceva inoltre che per la mia capacità di ascolto sarei stato sicuramente un buon inquilino. Ogni tanto passavano a trovarlo i fratelli e le sorelle della famiglia Toda, una delle famiglie più povere della città, a cui offriva da mangiare con tutta la benevolenza, donava loro anche delle galline che di certo non si sarebbero disperse nel vento. Era tutto buono in casa Ozu. C’era stato un padre in quella casa e aveva tramandato ai figli, ad Ozu in particolare, dei robusti valori educativi. Erano i tempi della famiglia Kohayagawa, la più prosperosa, eppure Ozu riusciva a fare tesoro solo del suo umano orticello della saggezza spirituale. Quando finimmo l’intervista mi chiese se volessi fare una passeggiata fuori. Accettai ovviamente. Avevo ancora tempo prima della partenza del treno per l’aeroporto. Mi sussurrò: “Seguimi e ti mostrerò cosa fare in un buon giorno”. Non prima di avermi fatto provare il sapore del riso al tè verde, specialità di casa. Era anche il tempo del raccolto del grano, e mi disse che presto sarebbe andato a raccoglierlo con uno dei figli. Fuori, l’aria annunciava un formidabile inizio di primavera. Era chiaro dal tiepido sole che si affacciava asciugando l’asfalto delle strade battuto dalla pioggia dei giorni recenti. Ci recammo in uno splendido giardino, dove riuscimmo ad apprezzare i favolosi fiori d’equinozio. Era come un magico rituale, quanto di più vicino al paradiso. Quel giorno con Ozu si trasformò nel trionfo della pace, proprio come nei suoi film, profondamente giapponesi e umanamente spirituali nel modo di accarezzare la realtà con mano poeticamente consapevole. Tutto questo lo riportai sul giornale, quando tornai a Roma. A Roma pioveva ininterrottamente da diversi giorni e il tempo sembrava non scorrere mai. Ripensai al crepuscolo di Tokyo, al momento esatto quando abbandonai la città. Il sole era appena stato oscurato dalla notte calante mentre schiere rossicce di scomparti di cielo invadevano l’orizzonte. Ripensai particolarmente ad Ozu nel tardo autunno, mentre le foglie gialle cadevano quasi danzando nell’aria. Chissà come avrebbero trascorso l’autunno i componenti della famiglia Kohayagawa. E chissà in quel momento cosa stava facendo Ozu. Non sono più tornato da lui, ma a volte, al crepuscolo o all’alba, ho come l’impressione di avvertire la sua presenza nella stanza. Mi volto, sento l’odore del suo saké, chiudo gli occhi e mi addormento di colpo per la pace dei sensi.