Siamo nel Nord Dakota nel 1823, dove Hugh Glass, cacciatore di pelli ed esploratore, nel corso di una battuta di caccia con i suoi compagni di spedizione all’interno di un territorio vergine, s’imbatte in un grizzly femmina che impaurito lo assale, con lo scopo di proteggere i suoi cuccioli. John Fitzgerald propende per l’abbandono, non prima di aver ucciso il figlio del ferito a morte. Hugh, dilaniato dal feroce attacco dell’animale, sopravvive come può contro le intemperie della natura, brutale nel suo soffio glaciale, capace al contempo d’indicargli la retta via della vendetta.
Un respiro affannato in terre vergini dove il selvaggio regna incontrastato e dove carogne di uomini come bestie le popolano con la pretenziosità di farle proprie. Il viaggio per la sopravvivenza dell’esploratore Hugh Glass, compiuto e reso in condizioni allucinanti per tutti (troupe inclusa), diviene un’immersiva conquista dei bisogni primari di un essere vivente, quali acqua, cibo, pelli – intesa sia come rinascita della propria pelle dilaniata nelle carni dall’attacco della bestia, prima ancora che lui lo diventi per sete di vendetta, sia come indumenti con cui proteggersi dalla morsa del costante gelo – riparo per il sonno, rialzarsi in piedi, tornare a camminare e riacquistare la voce. Sta di fatto che le parole smozzicate con le quali Hugh cerca di comunicare (Leo ha imparato persino a parlare due lingue native americane, oltre a tutta una serie di coraggiosissime prove per la sopravvivenza degne di ammirazione), si liberano del terrore della morte nel momento stesso in cui si smorzano per aprirsi a silenzi ancor più comunicativi, al pari degli sguardi con cui Leonardo Di Caprio riesce compiutamente a
comunicare, pur recitando col corpo. La minaccia Fitzgerald, rappresentata dalla talentuosa fermezza di Tom Hardy, gli si oppone con malcelata e vessante perfidia. La capacità di Alejandro Gonzalez Iñarritu e del suo fidato operatore e direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, è quella di sapersi appressare agli attori con sbalorditiva aderenza, alle loro azioni e alla luce naturale che magnificamente li attornia, imprimendo un crudo realismo e uno sfaccettato virtuosismo stilistico che non scade mai nel sensazionalismo gratuito fine a se stesso, riuscendo a fermarsi sempre un attimo prima dello scadimento nell’ostentazione.
Divorante, coscientemente affannato negli istinti e negli istanti intirizziti di vita, Revenant c’insegna che la violenza non è affar nostro, che probabilmente è nelle mani di Dio o di chi ne fa le veci, e ce lo imbecca senza pedanti proclami tipici hollywoodiani. Al cospetto della propria barbarie, come conseguenza dell’altrui atrocità, Hugh Glass, fortemente costernato, lo comprende, smarrito, quando ormai è troppo tardi. Quando il sangue avvelenato ha preso il sopravvento sulla purezza della neve e la ruvidezza del ghiaccio. Sentendosi osservato a lungo, ricambia sidereo. Ci sta chiedendo aiuto, mentre noi, raggelati con lui, ci stringiamo nel rassicurante cappotto che quasi non ritenevamo più di avere.