L’oscurità della notte losangeliana contrasta con le illuminazioni al neon che avvolgono l’innocente avventatezza della Modella Jesse, giunta nella babele della moda con lo scopo di diventare qualcuno senza alcun talento particolare. Cercare di emergere grazie alla bellezza, motivo per cui è invidiata da alcune colleghe, Gigi e Sarah, che hanno rapidamente fatto ricorso alla plastica facciale e corporale, per cercare di non perdere l’ultimo treno con la giovinezza professionale. Jesse è ignara di ciò che le spetta, specie dopo aver fatto la conoscenza della truccatrice Ruby, interessata a qualcosa di più ampio e complesso rispetto a quanto può fornire a livello di contatti con i fotografi che contano. Il passo dal sogno dorato al macabro incubo è breve.
C’entra qualcosa con la paura dell’espressione della propria sessualità, con l’affacciarsi alla vita adulta, questo nuovo film di Nicolas Winding Refn, il decimo lungometraggio della carriera. Una sessualità indispettita da morbosità che trasfigura in progetti fotografici decomposti tentando di esorcizzarle nella parvenza di una compostezza, lungi dall’esplodere. Qualcun altro per lei s’impegnerà nel far sì che poi esploda, o in caso estremo, muoia. Più che un horror, The Neon Demon è video-arte schermica museale figurata dentro una forma-cinema sintetica al netto dei sensi, un’ouverture del sangue nel lusso degli sprechi, degli obliteranti fasti. Il fascino per la bellezza si estende ed eleva, nella natura esperienziale che il
cinema del regista danese tende a fornire in maniera sempre più decisa, a qualcosa di ultraterreno. Il significato di alcuni simboli che appaiono e scompaiono, come luci calde o fredde a intermittenza, restano volutamente oscuri. L’ambiente della moda Refn lo conosce bene e sceglie di raccontarlo con un taglio elegante e torbido, perverso e sobrio al contempo. Il lavoro alla fotografia di Natasha Breier, novità in casa Refn, suggerisce fascinosità all’insieme dalle ipnotiche atmosfere, in accordo con la suggestività dei costumi di Erin Benach e della scenografia di Elliott Hostetter. Ma il sodalizio che offre ampi consensi e valide intuizioni è quello col compositore Cliff Martinez, in grado di costruire una musica elettronica fatta di bassi gravi filtrata nelle linee d’insinuanti sperimentazioni sonore. La candida bellezza di Elle Fanning nel
ruolo della protagonista Jesse arricchisce il film di una genuinità innaffiata dentro bagni di sangue, come ci rivela subito la primissima scena, una delle più forti di tutto il film e fra quelle che restano più impresse. Accattivante la presenza di Jena Malone, nel ruolo di Ruby, personaggio scritto raccogliendo degli elementi di derivazione storica (i suoi crimini hanno punti in comune con quelli commessi dalla contessa sanguinaria Erzsébet Bathory) mentre Keanu Reeves, nella parte di un bruto affittacamere, resta sullo sfondo, senza infamia né lode, come Christina Hendricks (Roberta Hoffman), direttrice dell’agenzia di modelle con la quale entra in contatto Jesse. Le algide modelle ristrutturate sono interpretate invece da Bella Heathcote (Gigi) e Abbey Lee (Sara). L’idea e l’ideale di Refn di sottrarsi sempre di più ad un’idea di film commerciale, con la voglia e lo sghiribizzo di gettarsi a capofitto in avventure rischiose e fortemente personali, lo porta però a confondere le acque di sollecitudini non sempre limpide. La sensazione derivante dalla visione di The Neon Demon, è di un insieme di simboli sorretti su un impianto più vincolante al citazionismo (da Bava ad Argento, da De Palma a Lynch, da Jodorowsky a Gaspar Noe). “Tutti rubano qualcosa
da qualcuno, nessuno escluso”, dichiara. Vero, ma Refn decide stavolta di non riscrivere (contrariamente a Drive e Only God Forgives), bensì di confondersi dentro un meccanismo di cinema possibilista ad un confronto e a un dialogo di natura e di aspetto multimediale. Ben venga se solo fosse supportato da una sceneggiatura convincente. Stavolta la sceneggiatura, scritta dallo stesso Refn in collaborazione con Mary Laws e Polly Stenham, non convince molto per struttura e credibilità delle situazioni innescate, e i simbolismi in alcune circostanze sembrano un po’ fini a loro stessi, i dialoghi sembrano incasellature di pensieri a volte e il finale lascia purtroppo perplessi. L’altro sodalizio, quello col montatore Matthew Newman, lo salva però dal flop. Tutto l’apparato tecnico/formale sviscera originalità unita a caparbietà, la stessa derivante dalla solidità di un regista che sta facendo del coraggio la sua arma migliore e una forma di sfida alle regole del business. Qua la mano allora, per tornare a scrivere davvero bene ci sarà tempo e modo, specie se l’apparato visivo sviscera tale potenza. Egli ha tutta l’intenzione di aprire un solco nella storia del cinema, ha visto nascere il digitale e vi ha contribuito al suo sviluppo, adesso sembra volerlo far dialogare con altre multimedialità. L’elettricità è poi il suo forte, così come i colpi bassi dati a tradimento, le rincorse contro il tempo frutto delle proprie ossessioni, le emorragie mestruali al chiar di luna e un palpabile senso di disagio, divorante, disarmante, di non poter essere una donna.