Fu a Long Island, alla Westbury School, e poi in seguito alla Michigan State Univesity che vidi per la prima volta il cacciatore. Imponente, barbuto, piuttosto alto, camminata fiera, mi ricordava uno di quei soldati che sui campi di battaglia trascorrevano la maggior parte del tempo a fare da sentinelle. Il cacciatore non aveva solo un fucile con sé, nelle tasche nascondeva una fondina con all’interno un calibro 20, roba da specialisti in carriera. Quando tornai dalla guerra, ero un uomo fisicamente e psicologicamente provato, e la vista del cacciatore era per me una pesante avvisaglia, minaccia visibile che passeggiava nelle strade a noi più vicine, con il patema di un incrocio tutt’altro che improbabile. Il problema dell’insonnia tornò a presentarsi in maniera insolente, fagocitando il bisogno ossessivo di evadere da New York. Non vi era più alcuna differenza fra i luoghi di conflitto verso distanti posti sperduti della civiltà e la luminescente metropoli che mi aveva accolto da una vita. Appena tornato dalla guerra incontrai un amico che mi raccontò che quello in corso era l’anno del dragone. Nell’anno del dragone tutto è possibile, anche che il cacciatore riesca ad avvicinarsi al sole senza scottarsi, fino ai cancelli del cielo, alle porte del paradiso, evitando di bruciare all’inferno, il posto dove lo immaginavo più a suo agio. Cominciai a fantasticare e non riuscii più a chiudere gli occhi. Le mie notti scorrevano lentamente e ricominciai a bere, a fumare erba, a guardarmi allo specchio. Tornarono le ore più disperate della mia esistenza. Tornarono a bussarmi nel cranio con tracotante insistenza. Fino alla notte in cui il cacciatore giunse a bussare alla mia porta. Guardai prima dallo spioncino, non avevo il coraggio di aprire e a comprimermi fu prima lo stupore, anche se dentro di me lo sapevo che prima o poi sarebbe venuto a cercarmi. Lo feci bussare otto volte di fila, poi aprii con uno scatto d’orgoglio. Aveva già il fucile puntato contro il mio cervello che sarebbe in fretta schizzato sul tappeto dell’ingresso di casa. Questo era almeno quello che immaginavo nella mia stanca testolina di cazzo. In realtà, sulla mano destra teneva il lungo e duro fucile, mentre la calibro 20 la impugnava con evidente empietà sulla sinistra. Non avevo scampo. Il cuore batteva a mille. Mi feci il segno della croce. Caricò digrignando i denti: “È per Salvatore, il siciliano, che sono qui”. Chiusi gli occhi. Click, click. Niente. Non ne uscirono di pallottole, né dal fucile, né dalla calibro 20. “Non è roba per specialisti, allora”, lo sentii blaterare, mentre riaprii gli occhi a fatica, preda del pizzicore che ti prende quando enormi gocce di sudore vi fanno di soppiatto il loro ingresso. “Ne è passato di tempo, certo, ma io sono solito portare a termine i miei piani di vendetta. Sono pagato per questo.” Non lo faceva di certo per passione, andare a caccia di animali nel bosco o in montagna. “Qui siamo a New York”, riuscii a dire, emettendo più un suono strozzato in gola che una frase spiccata. Gettò a terra le armi. “Ehi, ce l’hai un po’ di whisky d’annata?”. E se si trattava di un trabocchetto? Gli chiusi la porta in faccia schiantandomi a terra col culo e la schiena contro la porta, poi chiusi di nuovo gli occhi, tappandomi le orecchie con le mani, per non sentire il suono delle armi di nuovo in funzione tra le sue mani. Una cosa è certa, Giuliano non è mai stato mio amico. Solo il sole può essere considerato tale. Sta per rispuntare e nessun colpo parte, né dalla canna del fucile, né da quella della calibro 20 per specialisti di vecchia data. Solo uno strano ronzio nella mia testa. L’insonnia era appena terminata, mentre il sole cominciò ad avvicinarsi verso casa.