Un colpo al cuore. Il cuore. Daniel Blake ha avuto una crisi cardiaca ed è stato sospeso dal lavoro, dopo che il suo medico gli ha proibito di tornare subito a compiere sforzi. Daniel Blake è un carpentiere di Newcastle di 59 anni, costretto per la prima volta nella sua vita a chiedere un sussidio statale e mentre attende che la sua richiesta di indennità per malattia venga approvata, è costretto lo stesso a cercare lavoro per dimostrare che c’è dell’intenzionalità nella sua ricerca. La burocrazia, che è ciò verso cui mira Ken Loach, è il vero fardello che disintegra a poco a poco quella stessa intenzionalità. L’incontro con Katie, giovane single madre di due bambini alla ricerca disperata di un impiego confacente al suo stato, diviene occasione di sostegno per Daniel, che a sua volta trova conforto nella donna.
Da sempre, il regista inglese, ha avuto a cuore, essendo cresciuto in una famiglia di operai, le sorti del proletariato, della gente più modesta o dei diseredati alle prese con le difficoltà della rete comune degli indifferenti al dolore appartenenti allo Stato (o da chi ne fa le veci), poiché “il Capitale vuole i lavoratori vulnerabili e precari” secondo un ordine crudele dato ai suoi stessi funzionari di applicazione delle abiette direttive. Questa prassi si verifica sin dai tempi di Kes (1969), prosegue anche negli anni Ottanta con Fatherland (1986), decennio che segnò una pausa quasi totale dal cinema, per poi tornare alla ribalta a inizio anni Novanta con uno dei suoi capolavori, Riff Raff (1991). Dopo aver dichiarato di non voler fare più film, anche Loach, come Olmi e Besson, fa retromarcia con I, Daniel Blake (Palma d’Oro a Cannes 2016), profondamente toccato dalla storia dell’umile Daniel Blake, un personaggio al quale ha infuso grande coraggio, infinita carica, che fraternamente ama, sinceramente rispetta, scegliendo di raccontarlo con retta fermezza, senza fronzoli né alcuna ridondante declamazione di giustizia. Tutto è ferocemente controllato nel rigore dell’asprezza situazionale, che rivela un’insofferenza tale da incappare in un senso totale d’inadeguatezza. La parabola verso la rovina di Daniel Blake (lo interpreta un umanissimo ed ironico Dave Johns) è tracciata nella forma di un realismo che può essere veramente toccato con mano, su una sensibilità del tono accorata, seppure nelle fila di un’amara rassegnazione di fondo sviscerata del tutto sul plumbeo finale. Crediamo a Blake, poiché crediamo a Loach e alla sua scelta, crediamo a Katie, poiché è Hayley Squires scelta da Loach per incarnarne gli umori umbratili e le declinazioni graduali verso la disperata e umiliante povertà senza scampo: a tratti sembra rovinare su Daniel, a momenti su Katie, ma dà loro la caccia costantemente e soltanto per mezzo della solidarietà è possibile fronteggiarla. In una scena cruciale del film, Katie piange disperatamente perché sta morendo di fame, ha appena tentato un furto ed è stata beccata in flagrante; nella scena che probabilmente rimarrà più impressa del film, quella in cui Daniel Blake si ribella all’artificiosità amministrativa delle camere del potere (artificiosità dalla quale si tiene ben lontano Loach), noi arriviamo ad esserne partecipi, testimoni diretti e consapevolmente poveri, proprio come loro, senza difese né colpe particolari, se non quella di esser stati fino in fondo onesti, se non quella di aver convissuto a lungo con i crampi allo stomaco che attanagliano il respiro. La cappa drammatica tanto si evolve quanto si dissolve in un battito di ciglia. Chi assolverà i funzionari dalla colpa?