Perdersi per poi ritrovarsi nell’incanto della natura. L’approdo su un’isola deserta, il tiepido sole, il sale del mare, la sabbia della terra, la fitta umidità della flora, l’isolante animalità della fauna. Perdersi, ritrovarsi. L’itinerario a-solo dell’uomo naufragato si deve necessariamente rapportare con l’istinto della sopravvivenza. Sussistersi nella ricerca del cibo, negli utili sistemi di protezione dalle intemperie atmosferiche, dal freddo, dal caldo, dalle insidie della notte. L’uomo fa quel che può e le calamità lo ben dispongono nella crescita, ma è proprio il pericolo, il rischio di non poter sopravvivere, che lo spingono prima del tempo a cercare lidi più sicuri. Viene ripetutamente ostacolato, nei suoi tentativi di fuga, da una tartaruga rossa gigante, che se in alto mare ha la meglio su di lui, a terra ferma la lotta si fa impari. L’uomo è costretto ad arrangiarsi come può. La sintesi con la natura e con l’altrui essere è un obiettivo non impossibile da raggiungere, nemmeno per chi dà forma alle azioni dell’uomo, alla sua costante ricerca, al suo peregrinare apparentemente attorno alle proprie incertezze.
Il regista Michael Dudok de Wit lo fa divenire un uomo compiuto avvolgendolo di un’ammaliante sequela d’illuminazioni animate di stampo pittorico, interpolate a un sound design sopraffino che con l’avanzare del processo di muta umanizzazione dell’uomo, di questo individuo abbandonato a se stesso, si fa via via sinfonicamente classico. La costruzione del futuro, di un ideale di coppia, di una famiglia, della resilienza civile, passa inevitabilmente attraverso la maturazione basculante della memoria, del sogno, della sospensione intuitivamente avvolgente (lo studio Ghibli ci ha visto giusto nel co-produrlo con animazioni dello studio europeo Prima Linea), nella semplicità essenziale della parabola in intimo rispetto coi valori della natura, che è segno anche del cinema di Hayao Miyazaki.
Non c’è bisogno di parole, non servono dialoghi per spiegare un atto di crescita nella pace armonica dell’unico stato di salute possibile, quello lontano dalla disumanizzazione meccanica dell’uomo, impossibilitato a divenire individuo, perché omologato a un sistema che sovrappopola contrapposizioni viventi nelle forme confuse e ripetute di menti ad hoc dentro processi di distanziazione da quelli che in verità sono i nostri primordiali necessari istinti.
C’è tanta umanità, fieramente limpida, dentro questo film poeticamente libero e controllato al contempo da un processo cesellato di stilizzazione delle forme con le quali è linearmente raccontato. Ma la parabola è di natura metafisica – se urge un incasellamento sarà utile inserirlo dentro un processo di realismo magico – e la traiettoria sembra dare la stessa sensazione di una contemplazione al cospetto di un satollo arcobaleno, vaporosamente temerario nella maniera in cui riesce ad allentare gli occhi, senza intimidirne lo sguardo.