Elle

Donna di ferro, tutta d’un pezzo Michèle Leblanc, a capo di una compagnia di videogiochi, responsabile delle nuove proposte, amante del gioco, del proibito, eccitata dalla violenza alla vista del sangue. Non dovrebbe sorprendere, quindi, se la donna in questione decide di non denunciare il suo stupratore, infiltratosi in casa di soppiatto con passamontagna nero in capo, davanti allo sguardo impassibile del gatto, come a voler riconoscere nella padrona una certa predisposizione alla irruenta contesa schermica sessuale, al cospetto della violazione di due proprietà private: casa e vagina. Ma la donna si sente tutt’altro che proprietà privata, impartisce ordini che è una meraviglia, con ghigno impertinente all’angolo delle labbra e lo scherno invadente di rimando nei riguardi dei suoi dipendenti, ridotti a un’esaltata forma di schiavismo sessuale: uomini suoi amanti o ridicolizzati burattini dei quali tiene i fili dalla sua parte. Amante, appunto, del gioco, condurrà la donna a un depravato fil rouge erotico, ai limiti della sostenibilità fisica, col suo affascinante stupratore. O forse non è lui, ce ne sono stati altri. Tante cose non trapelano pienamente, pianamente, dal mistero dell’essere Michèle. Lei, la reale aguzzina della imbarazzante e pericolosa situazione, manovratrice di stati di coscienza oltremisura alterati, altri non è che un uomo, il vecchio uomo astuto che ostenta mascolinità, quel mascolino scaduto ormai nel vittimismo tipico di coloro che si ridicolizzano nel tentativo di soddisfare le richieste di donne che hanno smarrito ogni residuo di femminilità. Solo che c’è un problema evidente, qui si parla innegabilmente anche e soprattutto di una Lei affascinante, di una Lei facinorosamente che utilizza le armi in dote per indirizzare cose e situazioni a proprio favore con parsimonia. A Isabelle Huppert è stato consegnato il ruolo della vita, quasi il sunto, potente, brillante, sfacciatamente iconoclasta, astuto sicuramente, meravigliosamente scritto più del film stesso, che complessivamente sembra mirare al black humour britannico. Perché Elle è la danza sinuosa in punta di piedi e tacchi della Huppert, rediviva nonostante tutte le aberranti deviazioni dalla norma (aberranti per gli accomodanti vettori della parola di Dio, qual Dio?). Questa donna cattura qualcosa delle più aberranti perfidie dalla Bette Davis che fu,rigirando tutto a suo favore, innestando nel suo corpo le movenze e la estrema credibilità di un’attrice che fino ad “Elle” sembrava aver vissuto, seppur sempre con finezza e sconvolgente sovversione, una ferma staticità. Qui no, si muove a ripetizione, sconvolge senza irritare, conquista come una “milf” cattive maniere figlia peregrina sempre dello stesso identico gioco, a ripetizione, che lo stesso Paul Verhoeven innesta con acuto spasso. Ma la sua resta comunque un’invettiva dalle traiettorie ondivaghe donate alla esplicativa narrazione. Ancora e più di prima Verhoeven, c’è tutto il suo cinema che punge infiltrandosi sottopelle, in mezzo a maschi sballottati dentro meccaniche universali (non universalmente riconosciute) che poco hanno a che vedere con l’umano, decisamente più con l’inumano (l’Inhumaine di L’Herbier?).L’erotismo è trattato in maniera esemplare, fra irruenza e desiderio, lasciando intendere che sotto sotto la donna che aspira al potere dell’uomo desidera vivere sensazioni estreme. Sembra essere, pertanto, l’unico modo per mettersi davvero a nudo, arrivando persino a deturparsi, divenendo finalmente fallica. Fisicamente, nell’impossibilità di penetrare – lasciarsi penetrare per mezzo di una violazione assoluta del corpo – per divenire un tutt’uno con l’uomo, col coso, l’uomo-oggetto. Uomini-oggetto che violano carni meccaniche, robot del sesso senza reale scambio, sempre a braccetto col denaro, scambio che per poter sopravvivere deve farsi necessariamente violento ed ergersi a sopruso, consensuale. Sembra essere la sintesi perfetta dei rapporti di potere che intercorrono in molte coppie dell’epoca attuale, che una volta di più dimostra quanto il coraggio produttivo a volte faccia decisamente la differenza (un film con questo soggetto in Italia non viene più nemmeno preso in esame). Ma ciò che sorprende più di ogni altra cosa è l’identificazione collettiva, che come un rito di vecchi suggestivi rimandi coglie impreparato il pubblico che assiste alla sagace farsa. Un’identificazione che il pubblico femminile instaura col grande schermo prima ancora di quello maschile, al cospetto del perverso fascino di una protagonista che ci aiuta, forse, a sentirci un poco meno iniqui e sciatti, pervasi tutt’al più da trascurabili parafilie goduriose, tuttavia smarriti nei divieti della corrotta e imbarazzante ritrosia finto-peccaminosa delle religioni al di sopra dell’umana pietà. Godiamo in coro.

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