Erano anni che non si vedeva un thriller-horror di qualità così alta, contenente nei germi narrativi espandenti una profonda riflessione di natura sociale sulla manipolazione delle menti e delle coscienze a discapito di chi più si teme e dal quale si tende ad assorbire, nella spasmodica vampirizzazione, traendo energia dalla presunta superiorità della razza. Da qui l’ossessione patologica del bianco nei riguardi della fisicità, che rimanda alla bestialità, degli afroamericani. Ne nasce un conflitto magistralmente diretto, esemplarmente scritto, interpretato in maniera geniale, dove toni, sfumature, caratteri, contorni, personaggi, sono credibilmente curati nei dettagli, persino in maniera insolita rispetto alla stragrande maggioranza dei film di genere simile, dove spesso e volentieri le interpretazioni vengono ingenuamente trascurate. Una galleria ben orchestrata e ordinata di magnifici volti meno noti (se Katherine Keener e Bradley Whitford svettano per fama, ma Daniel Kaluuya e la magnifica Betty Gabriel si scolpiscono nella memoria per l’estrema bravura), e forse per questo anche più sorprendenti, un’affilata strategia del palpabile terrore per il diverso capace di cambiare pelle dentro punti di svolta che lasciano di stucco a ripetizione , anche nelle ben dosate declinazioni ironiche. La struttura stessa di tutte queste svolte sorprende per efficacia, grazie alla maestria di un comico afroamericano che esordisce nel cinema col botto, tale Jordan Peele, giungendo sempre al momento opportuno senza mai scadere nel cliché, né sorprendere in maniera telefonata con dispiegamenti di mutamenti narrativi o trucchetti dell’audiovisivo che ormai lasciano il tempo che trovano. Nonostante ciò, uno dei punti di maggiore presa del film è non a caso il sound design, coordinato non per destare sobbalzi
gratuiti sulla poltrona ma per far sì che il pubblico si immerga in maniera sempre più densa nelle traiettorie ambivalenti della vicenda, nelle scene pregne di sudore e verità. Messinscena e aspetti concernenti la cronaca sono armoniosamente coagulati nel tessuto filmico designato dal regista. La bestia nera è l’aspirazione reale e innegabile del bianco, succube del proprio sentore d’inferiorità, sfogato poi in varie forme di sessualità più e meno estrema (da qui il riferimento all’indizio dello schiavismo sessuale che ritorna come una pallina da ping-pong rimbalzando nelle conversazioni che intesse uno dei personaggi chiave del film nel tentativo di dipanare la matassa degli inspiegabili accadimenti). Riferimenti sportivi, nel voler affermare una volta di più le chiavi narrative, corredano il racconto di particolari che con avvedutezza e in-tensiva lentezza conducono alle sconcertanti rivelazioni finali. In fin dei conti, loro vogliono essere uguali, vogliono somigliare loro, pur disprezzando le diversità a occhio nudo più evidenti. Manipolazione delle menti nel tentativo d’impossessarsi dei corpi e fare degli stessi ciò che si vuole. Grandi, grossi e indifesi, come grande e grosso è questo sorprendente film – capace di riportare alla mente grandi film quali Rosemary’s Baby, L’inquilino del terzo piano o The Village – evitando con destrezza di scopiazzarli o anche solo omaggiarli per mezzo di eventuali citazioni. Get Out è cerebrale adrenalina filmica, fulminante, ipnotica secolarità. Imperdibile.