C’era un tempo in cui il proibito allettava. C’era il desiderio di alludere attraverso lo sguardo, lo scoprirsi adagio di una spalla o uno spacco provocante di vestito che lasciava intravedere appena la coscia. C’era un tempo in cui la censura proibiva tutto, ma proprio tutto. E per poter vedere un nudo al Cinema si doveva sorvolare lontani dall’America, dall’Italia, e andare in Francia, in Germania, in Spagna o in Cecoslovacchia. C’erano una volta Louise Brooks, Lyda Borelli, Greta Garbo, Marlene Dietrich, pose magnetiche, sguardi intensi, spudorate allusioni sessuali a cavallo tra muto e sonoro.
Il Cinema comincia a capire che la donna è qualcosa di magico, e che può bastare uno sguardo per rapire, dritto in camera o di sbieco di lato, di sottecchi. La censura insegna – specie in America con l’assurdo Codice Hays – che vietare un nudo integrale, un riferimento nel dialogo al sesso o un dialettico amplesso comporta un forte desiderio di andare a ricercare quell’intimità che nel tempo è dovuta, per forza di cose, rimanere celata. Una grande bugia punitiva e anche auto-
punitiva, cattolica e retrograda. Col tempo i film, i cineasti che ne hanno intessuto le fila, con la metamorfosi del costume, ne hanno saputo far tesoro e si sono di conseguenza adagiati su una sempre più chiara esposizione, fino alla
gratuità del pecoreccio italiano che ha cominciato a prendere forma dalla seconda metà degli anni ’70, a seguito dell’espansione del porno d’autore e di certa commedia che da allusiva si è trasformata in una forma di provocazione, spesso poco sana. Ma arrivati a oggi, in questi tempi sintetici dove ci si spoglia dietro alla tecnologia, per poi nascondersi sempre dietro ad essa all’aria aperta o dentro le metropolitane piene di sguardi furtivi a caccia di un incrocio non casuale, rimpiangiamo quella libertà di un tempo in cui un Tinto Brass o un Salvatore Samperi ci mostravano in primo piano i nostri sessi così come natura
li ha concepiti. Perché il nudo è natura ed è così che la natura ci ha pensati. Il sesso per il puro piacere di assisterlo, di guardarlo anche perversamente e senza colpa alcuna, senza manie di messaggi sociali ben precisi, se non quello forse di evidenziare lo sfascio della famiglia secondo concezione borghese. A qualcuno, probabilmente, i pruriti di un tempo di apparente liberazione sessuale, apparivano come un eccesso da frenare a tutti i costi. La libido toglie lucidità al cervello avrà pensato qualcuno, quella stessa lucidità che gli uomini di potere promulgatori di assurde leggi non hanno, del resto, mai avuto. La censura è sempre stato un fardello gravoso per il cinema, un limite ortodosso che ha cercato costantemente di fare una falsa idea di protezione dal malcostume, dai danni permanenti ai sensi, che invece dovrebbero volare liberi, senza costrizioni di sorta, e divampare senza danni interni. Sensazioni di prigionia che hanno fatto sì che nascessero forme di ribellioni sessuali quali quelle di film come Ultimo tango a Parigi o certo cinema di Marco Bellocchio, capace di porre una lente d’ingrandimento sul senso di frustrazione dell’essere umano di fronte al “se ti tocchi diventi cieco o qualcosa di molto
simile”. Ci piaceva, ci eccitava la vista oltre che i sensi, osservare l’imperiosa tracotante bellezza di
Silvana Mangano in Riso amaro, la più sensuale mondina tra le mondine delle risaie. Ci turbava un poco facendoci sentire vicino al suo corpo, lo sguardo calamitante della sensualissima Harriet Andersson nel primo
grande film di Ingmar Bergman Monica e il suo desiderio. L’eterno femminino che esplode in tutta la sua lucentezza sul voglioso corpo di Marilyn Monroe a partire da Quando la moglie è in vacanza. La mediterranea carnalità di Ava Gardner nel manifesto del romanticismo decadente al cinema presente nello splendido Pandora, che resta anche uno dei
film più sensuali della storia dei film. La deliziosa malizia in punta di piedi di Rita Hayworth in Gilda. La sensualità casalinga di matrice sudista della seducente Patricia Neal in Hud il selvaggio.
Il sesso
disegnato in volto di Brigitte Bardot, colei che Piace a troppi. Il peccaminoso desiderio erotico che avvolge la cosiddetta bambola viva in carne e ossa
interpretata da Carroll Baker, attanagliando la santa pazienza del marito che attende diventi maggiorenne per poter consumare quanto brama con parsimonia. E i cardinali insorsero. Ne dissero e ne fecero di peste e di corna, un po’ come il processo mediatico scatenatosi contro Pier Paolo Pasolini, specie a seguito dello scandalo di Salò o le 120 giornate di Sodoma, che ha comportato quello che noi tutti sappiamo e che non abbiamo mai accettato. Pasolini ci aveva visto lungo, egli sapeva che il costume stava cambiando radicalmente e che presto ci si sarebbe trovati a dover gestire troppe cose, incuranti di quelle fondamentalmente legate alla nostra sincera intimità, perché l’intimità è sempre sincera. Ed è per questo che si è arrivati a oggi con le mani sudate e strani pruriti sotto lo
scroto. Perché oggi il sesso si fa poco e male nei film, specie in quelli italiani. Ci si perde in chiacchiere, si va poco al sodo. Il vizio del teatro filmato permane nella gran parte dei film prodotti, ma questo è un problema ulteriore. Soffermandoci sulla questione sessuale, il sesso è bello quando litigarello, verrebbe da dire. Quindi si è spostata l’attenzione sul parolone o sulla parolaccia scollacciata, ci si permette di tutto, soffermandosi esclusivamente su dei glutei inguaiati dentro pantaloni troppo stretti o leggings striminziti quasi fino al collo. La moda segue il decentramento, le ragazze ne imitano le gesta, incuranti delle reali esigenze del proprio corpo. Ma qui rischiamo di sconfinare nella sociologia. Restando al cinema, il troppo stroppia. Il sesso è meccanico, perlopiù estenuante, quasi mai liberatorio, infinitamente frustrante, e dura poco, pochissimo. Secondo le statistiche, pare accordarsi con i tempi medi di durata della maggioranza degli uomini. Tutto molto rapido e insoddisfacente o lungo ed estenuante, ma senza reale piacere dei sensi. Allora quando capita, raramente, di assistere a esplosioni di voglie sopite si brinda alla vista. Abdellatif Kechiche nel suo La vita di Adele filma il più lungo e soddisfacente amplesso della
storia, fra due bellissime giovanissime donne. Lo spettatore finalmente gode. Un tempo si parlava di pruriti, di qualche gemito, ora c’è finalmente chi ha il coraggio di far godere. Liberamente. Ci si elettrizza quando si assiste alla foga con cui il personaggio di Viggo Mortensen inchioda sulle scale la moglie interpretata dalla sexy Maria Bello nello straordinario film di David Cronenberg A history of violence, regista che nel suo cinema sembra aver indagato l’interno del sesso femminile e di quello maschile con una radicalità tale da scomodare qualsiasi borghesuccio ipocrita seduto a sputare sentenze da tribunale degli imputati sulla sua ridicola poltroncina. Si rimane soddisfatti anche della sessualità sfrontatamente sofferente di Brandon Sullivan nel potente Shame di Steve McQueen, semplicemente perché autentico, corrispondente al vero del reale di chi ha ma non afferra mai davvero per un recondito blocco associato all’infanzia o ad una scottante fase adolescenziale.
Non è necessario che il sesso sia sempre amore. Siamo stati falsamente abituati a pensare l’amore romantico come quello di certi film, inesistente. Il romanticismo è insito nei sensi e nell’armonia delle componenti di un film, nel malcelato desiderio che tutte le sensuali attrici rivelano a poco a poco inquadrate da quei registi che vivaddio lo intuiscono e, capito il senso, lo elaborano con il benestare della donna prima ancora che dell’attrice. Quando si pensa precocemente alla tenerezza, si smarriscono gli istinti animali, che innegabilmente ci foggiano. Bisogna accettarne le conseguenze evitando di nascondersi. Al contempo, la brutalità del sesso scomposto fatto da dietro senza mai baciarsi né tanto meno guardarsi negli occhi, non può e non deve diventare la costante di un cinema che non fa altro che leccarsi le ferite bruciate di un passato che adesso ci sembra fin troppo lontano, annacquati nella sedentarietà delle nuove tecnologie che ci danno la parvenza di essere connessi col mondo, senza arrivare a capire che non lo siamo più nemmeno con noi stessi. Allora bisogna tornare a chiudersi nelle sale, possibilmente nelle monosale, provare a chiudere gli occhi prima che le luci si abbassino, immaginando il film che ci accingiamo a visionare. Potrebbe essere un buon esercizio di connessione della nostra sensorialità con quella delle immagini che si rincorreranno, a volte combaciandosi, sul grande schermo. Immagini erotiche, immagini di desiderio, sempre lì pronte ad uscire alla luce del proiettore, per proiettarsi oltre il già visto, fin nelle viscere del prossimo futuro.