Lady Macbeth

Come tante altre donne, la diciassettenne Katherine, nell’Inghilterra rurale del 1865, è spinta a un matrimonio di convenienza con uno zotico uomo di mezza età. La sessualità vissuta con comprensibile distacco e vuota abnegazione conduce la giovane a liberarsi a poco a poco di tutti gli orpelli che la ingabbiano dentro un costume di gesso e un corpo proprietà e merce altrui. Torna a respirare perché quel corpo è figlio dei sensi in scompiglio, nel periodo in cui il marito è fuori per un viaggio di lavoro, instaurando una relazione con uno degli stallieri meticci che il proprietario della magione, suocero di Katherine, ha schiavizzato come forza lavoro. Stessa sorte toccata alla domestica afroamericana, testimone di una vendetta al vetriolo architettata con sottile iniquità.

Non c’è ombra di Shakespeare stavolta, ma piuttosto quella di Nikolaj Leskov, precisamente il film Lady Macbeth è ispirato al racconto “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk”, che l’esordiente regista inglese William Oldroyd, anche drammaturgo, adatta con lodevole sobrietà.

Geometricamente essenziale nella complessità degli sviluppi di un’atroce vendetta figlia di una innegabile sofferenza, nell’arco narrativo di una circolarità esemplarmente efficace, il film espleta le sue migliori qualità con raggelante e pittorica solidità. Ogni cosa scorre davanti, accanto e attorno all’algida e bollente Katherine – ed è già una bomba di sconvolgente perturbabilità – interpretata dalla grande scoperta Florence Pugh, alla sua seconda apparizione sul grande schermo. Tutto si riflette sul suo volto, persino il paesaggio fotografato con finissima esattezza, mentre le sconvolgenti azioni, apparentemente incartate dentro un rigidità teatrale, rivelano in realtà una sorprendente incisività formale, sensuale.

Oldroyd predilige gli spazi aperti, inquadrando quelli chiusi come se fossero gli esterni, entro i quali costringe a stare come soggetti i personaggi ritratti con esattezza dentro un quadro d’ambiente che lascia implacabilmente senza respiro. Una regia inesorabile, sottilmente inquietante, una direzione degli attori avvincente, dai caratteri compostamente conturbanti. Riesce a farci sentire quasi dalla parte di una dark lady ingorda, dalla bestiale eleganza, carnefice consapevole senza remore né coscienza alcuna. Del tutto privo di ampollosità, questo sconvolgente film sarà ricordato come uno dei migliori esordi degli ultimi anni, consapevole generatore di un ambivalente meccanismo di disumana disintegrazione che non lascia scampo. Il cerchio si chiude sui suoi occhi da cerbiatta, smarrendo dentro quelli del suo pubblico la via d’uscita da quel labirinto di spine. Il graffio che lascia è uno squarcio di dolore nelle segrete della lacerante passionalità.

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