La foresta dietro casa di Aslak e madre Astrid si presenta minacciosa e ombrosamente oscura. Attira l’attenzione di Aslak perché sembra nascondere un segreto e come in tutte le cose pericolose e proibite finisce per intrigare l’avventura. Quando tre pecore vengono dilaniate in una notte di luna piena quel mistero si trasforma rapidamente in qualcosa di manifesto ed esplorabile. A dare concretezza all’immaginazione di Aslak, nelle sue notti insonni e nelle sue incuranti peregrinazioni, è l’incontro con un uomo incappucciato nella fitta vegetazione della foresta. Nelle notti di luna piena qualcuno ulula o forse è solo l’immaginazione del piccolo Aslak che soffre il dolore muto della tragica morte del fratello? Come non voler bene a un mostro o come tentare di rintracciare un capro espiatorio dietro la razzia di bestiame nella vallata delle ombre? C’è sempre bisogno di qualcuno da colpevolizzare.
Sospeso magicamente nei meandri di un paesaggio uggioso e suggestivo, Valley of Shadows ha il fascino rurale del racconto primitivo che si crogiola sulle leggende d’ispirazione nordica, tenendo a freno la mano pesante dell’orrore, qui solo suggerito, su trasformazioni feroci e dilanianti che solitamente ci si aspetta dai film horror a tema licantropia. Il regista e sceneggiatore norvegese Gulbrandsen affida l’intera forza del film all’affermazione di superiorità quasi mistica delle immagini sui concetti e le parole, il tutto accompagnato da arie sinfoniche e canti liturgici che sublimano i contenuti vagamente mitologici di fondo, infondendo grazia piena e levità alla storia. Ne rimane faticosamente avvinghiata la struttura narrativa, tenuta in piedi da ben poche rivelazioni e residue mute scoperte. Decisamente più importante è il silenzio, la quasi totale assenza di dialoghi, rumori, ritmo. Per Gulbrandsen il ritmo non è concepibile, deriva semmai dalla potenza intrinseca di ogni singola immagine la sua concezione di montaggio, dalla persuasività emotiva che ci comunica il piccolo grande protagonista Adam Ekeli, trascinando le inquadrature dentro un adagiato sentore di ataviche evoluzioni dello spirito. Una concezione del linguaggio cinematografico che riporta alla mente “El espiritu de la colmena”, deliziosa favola fanciullina del regista spagnolo Victor Erice, con la meravigliosa Ana Torres bambina. La valle sembra essere ancora più estesa e dispersiva a seguito dei fattacci accorsi alla quiete apparente dell’accettazione di sé come parte integrante della natura. La brina si posa sulla tundra estendendo il concetto di dispersione a qualcosa di molto intimo e precario. L’ultimo istante sembra neutralizzare la sensazione di disagio a fronte della paura del diverso. L’attesa ha un nuovo spiraglio attraverso il quale poter andare, entrare o tornare.