Mektoub My Love: Canto Uno

Le sirene estive sul fare del giorno della costa Mediterranea incantano lo sguardo scrutatore di Amin (Shaïn Boumédine), aspirante sceneggiatore e regista, giovanissimo fotografo delle istantanee libertarie dello scambiare di corpi, sensazioni e brividi. Da Parigi a una comunità di pescatori nel Sud della Francia è il tragitto del ragazzo, occasione per ritrovare il cugino Tony e l’amica del cuore Ophelie, nonché la propria famiglia in possesso di un ristorante di specialità tunisine. I bar, le stradine, la spiaggia, le bagnanti, come in un effluvio di ardenti salsedini di purezza, sembrano voler stordire Amin che in controcanto osserva senza lasciarsi trasportare, contrariamente a suo cugino che invece preferisce decisamente gettarsi nella mischia, assaporando quel brulicare di corpi che solo una stagione come l’estate sa rendere indispensabili.

Prima parte di una esplorazione libertaria delle pulsioni sensorialmente primarie dell’esistenza, senza se e senza ma. Quello che il regista tunisino Abdellatif Kechiche fa girare a meraviglia è quel lato vitalistico della vita aggrappato ad aspetti solitamente ritenuti proibiti, quali l’autenticità anti-accademica dell’istintuale approcciare alla recitazione, e una rappresentazione della sessualità viscerale, vera, potente, qui lievemente annacquata a tratti da dialoghi portati avanti a oltranza, scambi verbali che a volte non conducono a delle esplicitazioni che fanno evolvere narrativamente il film, interrotti a volte improvvisamente per tornare poi a quella rappresentazione del desiderio latente assolutamente reale, senza infingimenti. Nel suo peregrinare tra iati e pienezze sublimi, il cinema di Kechiche trova una propria dimensione registica nell’assoluta veridicità delle situazioni, dei dialoghi, degli incontri, delle seduzioni (il canto delle seduzioni), dei notori silenzi, in questo caso meno presenti rispetto a La vita di Adele. Mektoub My Love è più rohmeriano nell’essenza, ma anche cassavetesiano nel modo d’infiltrarsi sottopelle nelle emozioni più intime dei suoi uomini, delle sue donne, prima ancora che attori e attrici. Kechiche decide di entrare in sintonia con l’anima di tutti, nessuno escluso, osservando le loro azioni senza il vizio meschino di arrivare a giudicarli. Sceglie il taglio migliore, quello più plausibile, ci fa entrare subito nelle rotondità della carne con una dettagliata e vigorosa scena di sesso, per poi farci scoprire la poesia dei corpi e degli sguardi addossati sugli stessi senza divenire mai di maniera. Si potrebbe dire che gradualmente i film di Kechiche stanno divenendo alla maniera di Kechiche – anche per i suoi casting, dove spesso e volentieri va a pescare dall’anonimato di lavori comuni potenziali talenti espressivamente conformi alle sue precise idee di cinema – con lo scopo esatto di farti sciogliere, scuotere, vibrare sempre di più. E’ lecito aspettarci qualcosa di ancora più intenso nella parte seconda, pertanto.

Mektobu My Love: Canto Uno inchioda anche l’ambiguità delle relazioni tra esseri umani, inquadrando un aspirante sceneggiatore e regista nell’atto d’inquadrare quel microcosmo che gli ruota attorno, testimone osservatore par excellence, evitando di lasciarsi coinvolgere fino in fondo dall’insieme di tentazioni che a volte lo mettono in difficoltà, conscio del debole che ha per la sensuale Ophelie; come sensuale è tutto il film, nei minimi particolari, basti vedere il modo in cui la stessa Ophelie (attrice esordiente di nome Ophelie Bau) mangia le fragole o si bagna le labbra spesse volte, il modo in cui si muove o si tocca nel tentativo di sedurre anche mentre bellamente discute del più e del meno. Non è da meno una delle fanciulle più desiderate dal gruppo di parenti e amici di Amin, Céline (Lou Luttiau), più fine e variamente seducente che il protagonista avvicina e dispiaciuto lascia momentaneamente andare per fermarsi a immortalare ancora e ancora una volta gli assedi dei sensi in scompiglio creativo, nella rappresentazione genealogica del corpo femminile.

Un incanto dal quale non ci si vorrebbe più staccare. Ti trasporta nell’era felice dove la leggerezza è invero profondità di sollazzi e idee in uguale paternità di atti, canti, cerimonie di cinema, luce, vita.

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