Uno stimato e ricco cardiochirurgo elargisce doni e protezione a un adolescente rimasto senza padre a seguito di un’operazione mal riuscita, della quale si sente responsabile. Piano piano, il ragazzo s’intrufola nella famiglia del cardiologo, innescando un vortice di funesti eventi che in picchiata finiscono per rendere la vita della famiglia un inferno, perché alle colpe dei padri non c’è soluzione, e le conseguenze a volte possono essere letali, proprio come nelle migliori tragedie, dove vi è sempre un sacrificio da compiere in nome del ritorno a l’illusorio ordine.
Yorgos Lanthimos, regista greco e sceneggiatore di The Killing of a Sacred Deer assieme al collega Efthymis Filippou, fa iniziare il suo film sul nero per poi passare lacero – senza preamboli alla probabile catarsi del dolore e dell’orrore a cui ci si prepara ad assistere – all’immagine di un cuore aperto che presto smetterà di battere. Da lì nasce la storia, un’agghiacciante parabola di svizzera precisione stilistica che mira a colpire in pieno petto la disgregazione familiare, figlia di paure e colpe rimosse troppo in fretta, capaci di tornare a galla nella quiete apparente degli interni di un’alta borghesia sclerotizzata, concreta e indissolubile di facciata. Lanthimos prende per la testa questi schivi personaggi – interpretati con grande bravura e in linea di rigore da Colin Farrell, Nicole Kidman, Raffey Cassidy, Sunny Suljic e dall’impressionante e magnifico Barry Keoghan – e ce li scarnifica fino all’osso, arrivando a sconvolgere gli equilibri della trama, della sorte dei personaggi, in un lancinante tiro al massacro dentro corridoi e stanze di asettiche mura del dolore e della colpa. Vi si aggira dentro, fuori, ai lati, un vero e proprio angelo sterminatore fra i ripiani della fede marcia agli ideali di famiglia, spesso e volentieri messi in discussione dal cinema negli anni che contano, al centro di una graduale discesa negli inferi della psiche, del fato cui tutto allude e nulla rispetta. Non c’è via d’uscita e Lanthimos ci restituisce questa labirintica crisi esistenziale, di coppia ma soprattutto di deragliamento umano, con uno stile di regia rigorosissimo, modellato su inquadrature impeccabili, morbidi e avvolgenti carrelli a seguire e a precedere le persone-oggetto di scandalo e amore al veleno. La sceneggiatura riesce, con assoluta precisione d’intenti, a costruire una crescente tensione senza il bisogno di urgere nell’esposizione dei fatti, delle sorprese, degli effetti a sorpresa; costituendo a margine un’abilissima e fin troppo nichilistica versione dei fatti. E se il disegno, contornato di angoscia in ogni anfratto, nella seconda parte vira decisamente verso un umorismo macabro che al regista solitamente riconosciamo come un vero e proprio marchio di fabbrica, quel che rimane infine più impresso non è il perfezionismo alla Kubrick o la crudeltà ostilmente infame alla Haneke, bensì quella carica d’inquietudine che non si scolla mai dalla luce, laddove solitamente osa nascondersi nelle ombre degli oscuri presagi; alcuni dialoghi a un tratto sembrano franare l’ascetico dolore ma è poi sulle visive note finali che Lanthimos tocca l’apice della sua inconciliabile accezione tragica. La scena finale dell’ultimo atto, senza bisogno di parole, attraverso gli sguardi dei protagonisti dentro immagini al rallentatore e su un’aria classica incombente incomodità a non finire, non ci lenisce le ferite raccolte a piene mani; ci induce, con un occhio di riguardo agli esegeti, a riaffermare una volta per tutte quanto il cinema sia potente e quanto la differenza la facciano le immagini, molto più delle parole.
Dentro quella banalità del male fa compiere gesti e passi incerti, eppure letali, a un adolescente dallo sguardo gelidamente smarrito, ma anche penetrante, che mangia spaghetti sciattamente e beve limonata con noncuranza, facendo il finto tonto al cospetto della loquace, esatta quadratura degli atti. Si osservano a tratti, si rimirano, si allontanano, non possono e non vogliono “percaritàdidio” avvicinarsi, ma noi siamo lì, consci che la storia e la sua inamovibile verità sta tutta lì, dentro quegli istanti finali, all’interno di quegli ultimi atti che ricorderemo a lungo come tra i più sommi ed incisivi dell’intera storia dei film.