Joker

Il senso e la carica eversiva del personaggio è già interamente dentro la primissima inquadratura, la prima scena, l’incipit. Lo disegna allo specchio, mentre è al trucco e tenta forzatamente di sorridere. S’infila le dita nella bocca e stira letteralmente le labbra spingendo forte sulle guance, arrivando fin quasi alla base degli occhi. Poi rilascia e l’espressione è tutt’altro che serena. Ambivalenza patologica, disorientamento, disadattamento schizoide, primi sintomi di follia. Arthur Fleck, prima di farsi chiamare Joker dalla società dello spettacolo produttrice di veri mostri solo in apparenza senza maschera, fa l’animatore da pagliaccio e il cabarettista, passando da un fallimento all’altro, vittima delle ingiurie e delle crudeltà di una umanità sempre più bastarda e violenta. Gotham City ne tratteggia l’identità, come un faro che ne illumina i tratti oscuri, come un’architettura dalle intercapedini di acciaio massiccio. I potenti da una parte, il popolo dei poveri dall’altra, a fronte della storica mancanza di lavoro e dei furti, rapine e omicidi che ne conseguono. Uno dei problemi principali di Arthur è sua madre, doverle fare da badante la notte gli fa covare sentimenti repressi inespressi pericolosi che gradualmente lo conducono a caccia di una verità che funge da viatico per l’atto finale. L’immedesimazione nel personaggio che si crea diviene totale quando scopriamo, a poco a poco, quanto è difficile convivere con sfruttamento, falsità e intransigenza. Bisogna osservarlo bene Arthur Fleck, così come bisogna osservare bene il suo interprete, soprattutto mentre sorride a forza da buon patologico o quando sembra voler restringere le proprie scarpe da lavoro, chinato su se stesso, con la schiena inarcata e le scapole all’infuori in brutta evidenza.

Ne porta il peso sulle spalle Joaquin Phoenix, non solo perché la sua prova viene dopo quelle eccellenti di Jack Nicholson e di Heath Ledger, seppur diverse nell’impostazione, del resto come gli stessi film a cui hanno preso parte. Ne porta il peso, perché Phoenix, autore di una clamorosa interpretazione, decide di mirare altrove, mescolando effetti clinici derivanti da psicopatologie specifiche a prove attoriali disparate (ciascuno può divertirsi a rintracciarne almeno tre in netto contrasto). Ne consegue un lavoro mastodontico sia dal punto di vista psicologico che fisico. Come del resto ci aveva già abituato l’attore, e per certi aspetti questo personaggio sembra essere la costola più amorale e delirante del Freddie Quell di The Master. Bisogna osservarlo bene mentre, a poco a poco, dopo disagio e sofferenza plurimi, comincia a farsi beffe degli insulti e delle beffe del mondo là fuori, un mondo nel caos che odia sempre più coloro che detengono il potere, di tutti coloro che se ne fottono delle frange più deboli della popolazione. Accanto ad Arthur/Joaquin, anche se non nel vero senso della parola, scoviamo un Robert De Niro ben recuperato alla causa del cinema che conta, e non è un caso che il suo personaggio sia un prolungamento necessario di quello interpretato in Re per una notte e che le atmosfere sordide e piuttosto crude di Joker rimandino in diversi frangenti, innegabilmente a Taxi Driver.

Dirige con piglio fermo e brutalmente pungente in modo sorprendente – almeno rispetto agli esordi nelle commedie leggere – lo sceneggiatore e regista Todd Phillips che co-sceneggia il film in collaborazione con Scott Silver. Il duo si diverte anche, inserendo nella sceneggiatura diversi legami con quella che poi è la storia che tutti conosciamo della famiglia Wayne, del loro omicidio ad opera di un fomentato agitatore, della crescita del figlio Bruce con il maggiordomo e della venuta al mondo del cavaliere oscuro Batman. Quando lo showman Murray Franklin/Bob De Niro, lo nota e deliberatamente lo mette in ridicolo in diretta durante un suo show decidendo poi d’invitarlo in studio per umiliarlo davanti a tutti, lo spettacolo di dolore e violenza raggiunge vette inaudite che alla lontana lambiccano il famigerato sfogo in diretta tv del presentatore Howard Beale di Peter Finch dal film Quinto Potere. Todd Phillips sa come distillare le suggestioni cinefile per introiettarle in maniera quasi epidermica, con grande potenza espressiva, nelle sembianze del Joker che inevitabilmente esploderà, per strade, piazze, metropolitana, al cospetto di delinquentelli viziati, datori di lavoro senza scrupoli, adolescenti ignoranti e incattiviti dal contesto in mano agli adulti, presso manicomi e ospedali che come cordoni ombelicali continuano a trattenere Arthur/Joker nelle maglie di un passato di soprusi e scioccanti rivelazioni. Nella ricerca, nell’ostinazione del personaggio, nella forza maleodorante che emana il film, dentro al suo scenario quasi apocalittico, Joker si rivolge all’indifferenza comune del più vicino e lontano al contempo, generando un corto circuito di sensazioni scomode, eppure temibilmente vicine alla realtà dei fatti. Ride, poi scappa, quindi si ferma, non vuole ascoltare, ma capisce tutto e balla per una volta incurante del prossimo. Guarda oltre. Rimugina e programma disordine. Arthur/Joker/Phoenix se lo imprime addosso, sembra quasi di percepirne l’odore e non tende a scollarsi di dosso. Fa quasi paura e noi con lui.     

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