
Esistono tante forme d’arte e per molti il Cinema è quella più popolare (popolana?). Troppo a lungo, difatti, è stata considerata inferiore a musica, pittura, teatro, letteratura. Ma il Cinema vero va oltre le mera imitazione delle altre arti. La televisione, ad esempio, è arrivata molti decenni dopo e nonostante sia stata a lungo ritenuta la cattiva gemella del cinema, ha finito per soppiantarlo; e così via con tutte le sottocategorie legate alla serialità infinita, a tutte le web-serie che vanno per la maggiore, perlopiù cattive riproduzioni del peggior intrattenimento televisivo. Vanno per la maggiore perché sembrano catturare meglio il peso morale e la mancanza di una capacità di giudizio e selezione insita nel pubblico medio e nel superficiale pubblico social che preferisce l’immediatezza, non come sintesi efficace di contenuti ma in quanto priva di riflessività, di profondità. Difatti, il pubblico dei social tende a dare maggior credito a un artista o un profilo instagram con una pagina con migliaia di “likes” che con facilità e imbarazzante immediatezza si comprano, evitando, sempre con superficialità, di andare a scovarne i contenuti, qualora ve ne siano. Quindi, non è il valore in sé a esser premiato nell’era social, quanto piuttosto il pubblico che si ha che di quel valore non sa che farsene, come vale uguale per chi s’intona con il gusto pubblico. Non sa che farsene perché non sa riconoscere la differenza tra pregio e mediocrità. L’ignoranza è il nuovo metronomo di comparazione sociale. Così diffusa da divenire un vanto per chi rifugge la profondità d’intenti. Senza dilungarmi in termini di nuove possibilità di fruizione audiovisiva, penso che la sintesi delle altre arti, espressa nei casi più felici dal cinema, sia l’esempio possibile secondo il quale, per mezzo del linguaggio cinematografico, si può superare la barriera dell’imitazione. I grandi autori ce lo hanno dimostrato, ridefinendo, riscrivendo le forme creative nate precedentemente. Un brano musicale ha l’immediatezza del bacio, lo stordimento dell’afflato erotico, sin dalle prime note ti trasporta dentro, attraverso il coinvolgimento di vari sensi, non solo dell’udito e della vista. Un quadro è un’immagine ferma e mobile al contempo, puoi prenderti del tempo per cercare di osservarlo oltre quel che appare e lo puoi fare senza troppi psicologismi, senza la fretta di dover accorpare segni e simboli di riconoscimento tipici del montaggio nel cinema, che del resto può travolgerti e stordirti tanto quanto la musica. Un libro, un racconto, una poesia, sono fatti di parole e scavano nel profondo, se colti nel momento e nelle situazioni giuste, ci permettono anche di rilassarci e trasportarci entro altri lidi, ma se troppo impegnativi non rimpiangiamo tanto il fatto di abbandonarli, contrariamente a quando lasciamo una sala dove abbiamo pagato il biglietto per un film. Uno spettacolo teatrale, privo del filtro dell’intero apparato audiovisivo, ci racconta una storia, la sconquassante urgenza di un dramma o la brillantezza di una commedia, come se stessimo a una seduta dove sono solo gli altri ad aprirsi e a mettersi in gioco, mentre noi testimoni passivi pensiamo che in fin dei conti è tutto lì, davanti a noi, quindi afferrabile e meglio fruibile (spettatori di colpo attivi?). Occorre forse ripensare la logica di certe fruizioni. Esempi che a una prima lettura possono sembrare approssimativi ma che delineano quanto in realtà il mestiere del cineasta sia il più complesso, perché è in verità un linguaggio nuovo e perpetuamente soggetto a innovazioni, e non la banale sintesi delle altre maggiori arti, seppur attingendo dalle loro basilarità. Lo dimostra anche il fatto che un regista di film attira, in quanto tendenzialmente carismatico, guida di tante altre unità di persone, fuori e dentro il set, egli dipana per lunghi tratti la riuscita di un film ma se si tratta di un soggetto studioso, di un meticoloso di talento (o peggio ancora se geniale individualità), fatica a rilevarsi socialmente e culturalmente, e in Italia anche umanamente e affettivamente, perché ritenuto troppo complicato, mentalmente faticoso, raramente manipolabile, e lo si preferirebbe manipolatore nelle braghe del potere (la rete adescata/adescatrice che spesso al femminile rischia di aprire una voragine di autolesionismo, non sempre e solo figlia di diritti mancati). In sostanza i musicisti e i pittori vengono spesso (a torto?) considerati più “fighi”, essi rappresentano l’anima ribelle-anarchica (ma capita anche a loro di vendersi a favore del pericoloso livellamento sociale, sempre in atto), creano spesso al di fuori delle logiche industriali, poiché bastano davvero pochi strumenti per cominciare a creare, ma sarebbe sempre meglio se di prospettiva industriale, a lungo andare stancano anche loro nel percentile dei gusti della gente, se fini a loro stessi (leggasi privi di un’ottica industriale/economica). Non si può dire lo stesso degli scrittori e specialmente dei registi, con le eccezioni che confermano le regole. Un’analisi di simile prospettiva si può aprire in ottica di deriva social, con personaggi di dubbissimo talento e prospettiva che vengono osannati solo nei casi in cui si associano al gusto medio, mentre con altrettanta faciloneria si inseriscono in quel range di gusti contemporanei sottesi alla mancanza di reali interessi. Un concetto sovrapponibile a quello del fast-food. Tutto e subito. E di conseguenza delle relazioni. Adesso e subito ma non azzardarti a chiedermi di approfondire. Possiamo anche vederci un film. Sì, ma che non sia “lento” e “pesante”, leggasi impegnato, che fa riflettere, profondo. Intrattenimento, distrazione, del resto c’è già la vita a presentarci il conto. Ma l’arte non doveva far riflettere su ciò che sembra limpido e invece cela tanti sottostrati di lettura della verità? Non tutte le arti son sincere perché non tutti gli artisti son sinceri. Come riconoscere la differenza? Mentre si accettano musica più stratificata e quadri più complessi, pieni di segni non immediatamente riconoscibili, tanto durano il tempo di un ascolto e l’istante di uno sguardo, si rigettano film durevoli. E fotografie che imprimono immagini nel tentativo d’incastonarle nella storia, nella memoria. Per quanto possa essere affascinante e malinconica la fotografia, ha la presunzione d’intrappolare una persona, un volto, un oggetto, un paesaggio nel tempo in maniera ricattatoria, il cinema è la sua naturale evoluzione e dimostra che il tempo è un flusso inestricabile e che in ogni arte che si rispetti, bisogna saper distinguere il falso dal vero.
Il Cinema, a dire il vero, è la naturale evoluzione, l’ulteriore evoluzione di tutte queste arti. E i veri registi, sono i rappresentanti più preparati dell’arte più potente e avanzata al mondo, senza bisogno di sporcarsi le vesti con l’ausilio di uno strumento volto a farci sembrare degli artigiani del mestiere. Il concetto di artista si è evoluto nel tempo e su queste affermazioni si può, come per qualsiasi altre, obiettare. Ma sta di fatto che il pensiero e le opinioni non possono non mutare nel tempo. Altresì, hanno ragione di mutare se però sono in grado di cogliere l’evoluzione delle cose, quella della natura. Chi ve lo fa fare a scambiare troppo l’arte cinematografica con altre forme audiovisive minori e a continuare a trascurare il processo di creazione di un film realizzato da un vero artista? Sarebbe un processo troppo lungo che richiede una simbiosi tale da abbattere qualsiasi schematismo riguardante la riproducibilità dei mestieri? Chi sono gli artisti? Di sicuro non dei mestieranti. Perché ha iniziato a dar fastidio il termine artista? Forse occorrerebbe separare la distinzione tra artista e artigiano e forse, dico forse, potremmo avvicinarci meglio alla verità, scoprendo in maniera leale che molti scambiati per registi o cineasti o filmmaker che dir si voglia, con i necessari distinguo, sono a dire il vero dei banali mestieranti, e che forse solo una volta conservavano un qualche valore creativo. Mestieranti da non bandire, purché non abbiano maggiori possibilità di emergere degli artisti. Ma si rischierebbe di aprire argomenti che richiederebbero ulteriori trattazioni e approfondimenti. Magari potremmo distinguere il “true” dal “fake”. Fast come tutto immediato. Fast come i metodi di studio dell’imparare a memoria che tanto dopo la laurea tutto si scorda. Restano processi di memoria e nulla più. Il nulla del pensiero proprio, fagocitato in quello confuso, e a margine dell’altro. Sarà che siamo ormai troppo condizionati dalla nuova deriva della socializzazione da confondere le acque in termini. Varrebbe la pena riscoprirli questi termini e dare loro una rinfrescante definizione, con lo scopo di tornare a valorizzare le singole cose, non solo le arti, da intendere come macro-aree di divulgazione. Valorizzare l’individualità è l’unico modo per far fronte al marasma della massificazione e ampliare con accorta meritocrazia i canali di diffusione di tutte quelle individualità, alle quali altrimenti non resterebbe che lo scolo dei social.