parte seconda
2. Accademia e Cinema dei sensi
A gravare sulle numerose personalità registiche che nella storia del cinema si sono più o meno carismaticamente succedute, c’è stata l’accademia. Si definisce accademico qualcosa o meglio qualcuno che segue troppo pedantescamente le forme e le norme tradizionali, derivanti da èlite erudite di antiquati professori che impostano l’insegnamento solo ed esclusivamente su precetti simili a dogmi. L’industria cinematografica ha fatto sua questa deriva dell’istruzione canonica che rifiuta l’incentivazione alla scoperta, facendo passare per basilare soltanto un modo di fare cinema, seguire la tradizione, non l’innovazione. Le grandi produzioni sottostanno a questi veri e propri diktat analizzando i gusti del pubblico attraverso indagini in termini di ascolti che hanno, col tempo, contribuito alla costituzione di algoritmi affidati allo sviluppo e al potere sempre maggiore conferito all’informatica, senza minimamente alimentare il dubbio che possano davvero risultare credibili le sortite di un’indagine virtuale.
L’accademia che in Italia si pregia prima di ogni altra di questo indirizzo è la Silvio D’Amico, di formazione prettamente teatrale, che deriva dal suo stesso fondatore, studioso e critico teatrale, fautore di un’idea di teatro aperta allo sviluppo di più creatività collaboratrici, non più con al centro soltanto l’importanza dell’attore, ma dell’autore o degli autori che tutti contribuiscono alla causa della creazione di uno spettacolo. L’importanza, quindi, del riconoscimento di un regista a capo dell’opera diviene il viatico per un’idea di regia univoca, basata sui fondamenti accademici di realizzazione cinematografica. Una maniera sibillina – nonostante a formarsi nella scuola siano state personalità piuttosto rilevanti dell’immaginario cinematografico nostrano – per soffocare e marginalizzare creatività e talento di un autore. A svilupparsi è l’idea del regista mestierante che contrariamente al regista autore segue una linea metodica priva di guizzi utili ad avvicinare un film a un’opera d’arte o quanto meno a una forma di sviluppo della eventuale personalità registica. E se i mestieranti eseguono la linea di condotta di una serie di voci più o meno attendibili, gli autori seguono a propria ispirazione e si pregiano di collaborazioni esterne solo ed esclusivamente per arricchire quel genere d’ispirazione. E’ stato, a eccezione di rarissimi casi, uno dei problemi principali del cinema italiano. Lo è stato, seppur con risultati del tutto differenti, nel cinema americano. L’aura accademica, nei film americani, è rappresentata da un arricchimento tecnico, memore degli epigoni e tuttavia schiavo di una globalizzazione dei gusti, delle mode e delle tendenze, utile a favorire il riciclaggio di spunti inizialmente originali, divenuti poi dei cliché. Su quegli stessi cliché, il cinema italiano ha poi consumato ciclicità di successi senza senno, spesso e volentieri, tutt’altro che casuali, anche se nel caso delle dinamiche interne al successo non esiste propriamente una scienza esatta. Alcuni autori, ritenuti ancora oggi all’estero dei veri e propri maestri – Antonioni e Fellini su tutti oppure Elio Petri – hanno cercato e talvolta trovato una propria matrice stilistica che li ha resi unici a confronto degli altri. Alcuni registi, solo in parte ritenuti autori, come Visconti e Scola, hanno raccontato l’aristocrazia e la borghesia, con uno sguardo attento al popolo, in un modo che non sembra aver privilegiato né l’accademia, né l’idea del film d’art che spesso e volentieri ha sfociato nell’autoreferenzialità. L’idea del film d’art deriva dalla nascita e dallo sviluppo delle Nouvelle Vague, che in tutta Europa e in America Latina, hanno contribuito allo sviluppo di un’idea di cinema atta a valorizzare maggiormente le stratificate moltitudini di espressione artistica degli autori di cinema. Per alcuni importanti registi, il concetto di autorialità è sopravvalutato, perché il cinema che ci hanno imparato a far conoscere meglio e che si può considerare a tutti gli effetti commerciale, è pur sempre cinema industriale, prodotto secondo i dettami associati all’industria, alla grandezza e raramente alla spregiudicatezza delle risorse investite. Raramente si è trattato di scommettere su nuove idee, sull’originalità esclusiva della proposta. Si ha un’idea alquanto approssimativa di tutti i film sommersi, nascosti rispetto a tutto quel che è reso fruibile dal sistema di diffusione. Sono un numero enorme. Quel che a poco a poco si sviluppa dagli anni ’60 è la proliferazione di un gran numero di personalità registiche, in alcuni casi di vere e proprie genialità che non può non far credere che un’alternativa all’industria sia possibile e realizzabile, fra l’altro senza investimenti proibitivi. Lo avevano dimostrato gli alfieri del cinema indipendente che cominciarono a sperimentare, almeno in America, dagli anni ’40, attraverso cortometraggi underground che facevano della ricerca dei concetti simbolici da esprimere attraverso le immagini e il suono, su immaginari di base documentaristica o surrealista, il loro modus operandi. Col passare degli anni, come anzidetto, si sono sviluppate delle scuole che hanno contribuito significativamente al rinnovamento del cinema, facendo nascere una lunga schiera di autori che esordendo negli anni ’60, hanno meglio sviluppato la loro idea di cinema nei ’70. I vari Scorsese, Coppola, Friedkin, Lumet, Altman, De Palma, Woody Allen, Pollack, e la lunga fila di europei trapiantati in America (soprattutto dall’Inghilterra, dalla Cecoslovacchia e dalla Polonia che richiederebbe una lunga sfilza di nomi), hanno continuato a contribuire alla causa del buon cinema anche nell’epoca a noi contemporanea. Si è ratificata l’opposizione tra coloro che – soprattutto in Francia – promulgavano un’idea di cinema artistico e coloro che cercavano comunque di applicarla ai generi costituiti in America già agli inizi degli anni ’30. In ambo i casi si può sempre parlare di film artistici che attraverso un accorto e sapiente lavoro su sceneggiature attente a una concezione di narrazione, cercavano di rendere fruibile e avvicinare quindi al pubblico medio, forme di cinema altrimenti impermeabili. Da qui l’idea di un cinema dei sensi. Non solo il senso insito nel messaggio principale da trasmettere dietro a un’opera artistica, uno scopo da raggiungere per mezzo di una struttura narrativa, ma anche un meccanismo puramente sensoriale, associato a un’idea di fruizione cinematografica nella quale gli aspetti audiovisivi sono preponderanti rispetto ai sintagmi tipici di un’idea di montaggio lineare (vale lo stesso come per la rottura col montaggio cosiddetto invisibile, per la frantumazione delle regole del campo e controcampo, in una più ampia e interessante gestione del tempo filmico). Un cinema dei sensi è senz’altro quello surreale e metafisico (Buñuel e Cocteau su tutti, ma anche Maya Deren, Alain Resnais, David Cronenberg, Ken Russell, David Lynch), di natura sperimentale, proiettato negli anni ad un’associazione con il cinema commerciale di tutto rispetto e di assoluta innovazione, senza necessariamente doversi vendere l’anima al diavolo, se vogliamo. Molti sono i registi ad aver contribuito alla causa di rinnovamento dei generi, per mezzo di una visione artigianale degli stessi, ad un gioco, quale il pastiche, mai fine a se stesso, basti pensare ad autori come John Carpenter e i fratelli Coen, a Quentin Tarantino e in Oriente Takeshi Kitano. Agli albori, quando il cinema era governato dai grandi studi, molto tempo prima che un capolavoro sconquassasse senza volerlo la credibilità del cinema d’autore all’interno dell’industria nel 1980 (il fallimento commerciale di Michael Cimino con Heaven’s Gate), l’accademia era alquanto predominante e prolifica, e certi registi – si pensi anche solo ad Allan Dwan e Michael Curtiz, e in seguito Robert Wise – realizzavano un numero impressionante di film, 2-3 l’anno o come minimo 1, contribuendo enormemente alla codificazione dei generi che oggi tutti conosciamo e abbiamo imparato ad ammirare (dal film d’avventura, spesso e volentieri cappa e spada, al peplum, dalla commedia al musical, passando per il melodramma, dal western al gangster-movie e al noir, dal film horror a quello di fantascienza). Già negli anni ’40, grazie allo sviluppo del genere noir, sempre più registi hanno cominciato a cimentarsi in produzioni low-cost. Negli anni ’50, un certo Roger Corman, divenne il fautore e il promotore – basti solo pensare al gran numero di registi e di attori che ha contribuito a lanciare nel firmamento hollywoodiano – di un’idea di cinema low-budget e di una gestione delle possibilità produttive a dir poco geniale. Ci ha scritto anche un libro a tal proposito, dove enuclea le sue esperienze, utili alla realizzazione di centinaia di film in una decina d’anni, spesso e volentieri sfruttando set d’altre precedenti opere, gestendo la manodopera e gli strumenti necessari secondo una concezione del lavoro simile a quella di un astuto e lungimirante riciclaggio delle idee e delle risorse. Tutto ciò ha sovente avvicinato il cinema a un’idea quanto più simile a quella del baraccone da fiera, al circo, entro il quale si possono scovare mostri (o freaks) che vengono messi in mostra per la loro natura deforme e anomala rispetto a tutto ciò che è umano. Un autore fuori degli schemi paragonato a una sorta di acrobata mascherato che può incutere timori in coloro che devono ancora conoscere il mestiere e i mezzi attraverso i quali può essere realizzato. Il concreto avvicinamento all’idea più antica di spettacolo (non dimentichiamo che il cinema divenne popolare dentro dei tendoni da fiera denominati nickelodeon nei primissimi anni del ‘900, con proiezioni a rotazione no-stop al costo di 1 nichelino) si materializzava con l’eliminazione di tutto ciò che era a corredo dello spettacolo cinematografico (spettacoli di magia, concerti, ecc), per favorire un’esperienza più immersiva. Con lo svilupparsi di questo tipo di esperienza, decisamente più vicina al cinema secondo la maniera in cui abbiamo imparato a conoscerlo e ad amarlo, i film cominciarono dagli anni ’10 del ‘900 a privilegiare lo sviluppo di una matrice narrativa, una narrazione meno iperbolica e più naturalistica. L’abbandono di tutto quel che distraeva dallo spettacolo cinematografico non ha fatto altro che favorire una rapida alfabetizzazione del popolo per mezzo delle immagini, prima ancora che della letteratura, che seppur presente da secoli, non aveva ancora convinto la persone a prenderla come punto di riferimento imprescindibile per la formazione di una indispensabile cultura. Un immaginario che ha formato culturalmente soprattutto gli americani e gli italiani (succubi di un’attenzione nei riguardi del cinema tra le più deficitarie di tutte nel mondo). L’attenzione impopolare nei riguardi della cosiddetta settima arte, considerata a torto sempre come succube e subalterna a quella teatrale, come bassa e popolare rispetto all’altra vista invece come istituzionale, quindi elitaria, nonché come la vera forma di cultura del Paese, era un vero controsenso, perché rappresentava la prima forma di alfabetizzazione, avvenuta primariamente per mezzo del cinema nell’immaginario delle masse, generando così una frattura nella conoscenza. Un’attenzione nei riguardi del teatro che cozza contro la realtà dei fatti: raramente ha dato adito a contributi protettivi nei riguardi di un altro di quei settori perennemente in crisi, a dimostrazione di quanto poi la priorità culturale del paese sia ritenuta fondamentale, anche e soprattutto ai fini scolastici. Non esistono corsi di teatro e cinema nella scuola dell’obbligo (oggi, una legge di qualche anno fa permette l’inserimento delle materie per meri scopi propagandistici in appoggio, a mò di stampella, ad altre discipline, senza contare che si tratta di ambiti che richiederebbero uno studio approfondito a parte), e della Letteratura si studiano sempre gli stessi autori, soprattutto quella italiana capitanata da Dante Alighieri a Giosuè Carducci, da Giovanni Pascoli a Giuseppe Ungaretti, da Giovanni Verga a Luigi Pirandello, e a dir tanto si arriva a Dino Buzzati o Italo Calvino (ovviamente solo ed esclusivamente la sua produzione favolistica). Si è sempre letto poco in Italia e il fatto che la maggioranza dei film prodotti sia tratta da opere letterarie, sembra non avere minimamente spinto il gran numero di fruitori di spettacoli cinematografici, a meglio approfondire le varie arti. Quando accade, si finisce quasi sempre per liquidare la questione con la tesi secondo la quale le opere letterarie sarebbero meglio sempre e comunque rispetto ai film, senza cercare di comprendere le profonde differenze che caratterizzano la narrativa rispetto alla scrittura di una sceneggiatura per il cinema. Complici e succubi di un sistema scolastico e universitario accademico, per l’appunto, fondato su scuole di pensiero univoche, alle quali si può accedere, fra l’altro, solo in quanto rappresentanti primari o quanto meno secondari di una èlite di rappresentanza politica, prima ancora che culturale. Proselitismo partitico. Con la proiezione di Nascita di una Nazione (1915) di David Wark Griffith, tra i maggiori innovatori del linguaggio cinematografico e tra i più sopravvalutati maestri del cinema per quel che riguarda la delineazione di un film di senso compiuto, sia a livello contenutistico che morale, s’impose la regola del lungometraggio, una sola proiezione e non uno show simile al carosello. Concentrazione e decifrazione piuttosto che sovrapponibilità e superficialità. Il film comincia ad essere visto ed analizzato per quel che è o dovrebbe essere, un’opera da leggere, secondo modalità non troppo dissimili da quelle di un libro.
Da allora, dalle rivoluzionarie innovazioni degli anni ’20, tra gli anni ’20 e ’30 con la nascita del fondamentale sonoro (portante lo sviluppo successivo di un’idea di cinema più completa), nella codificazione dei generi negli anni ’30 subito dopo l’inevitabile messa a punto del sonoro che portò a un eccesso di film d’ascendenza prettamente teatrale, nello sviluppo di forme di cinema alternative e in un’idea di cinema meno industriale e al contempo più popolare negli anni ’40, nella formazione di un’idea di cinema moderno ribelle e innovativo, sia per quanto concerne gli autori che gli attori, negli anni ’50, nella rivoluzionaria generazione delle nuove scuole di pensiero di cinema alternativo fondato sulla predominanza del regista, anche sceneggiatore delle sue opere, negli anni ’60 e in parte nei ’70, prima del crollo delle certezze acquisite sulla questione dell’autorialità a cavallo dei ’70 e ’80, e di rinascita di un’idea di cinema di generi come pastiche di forme e tendenze antiche e al contempo moderne, denotanti la definizione di cinema postmoderno, fino all’avvento del digitale, dell’interattività e delle nuove forme di fruizione in streaming dei film: la storia del cinema ha sempre elargito una contrapposizione, non più netta a dire il vero, tra produzione accademica, di base industriale, e produzione da film d’arte, libera e artistica, detta autoriale, di base artigianale. Con l’avvento delle nuove realtà associate al piccolo schermo e alla cultura dello streaming, come Netflix, il potere della televisione si fa sempre più massiccio anche laddove le produzioni dicono di pensare i loro film per le sale cinematografiche. Lo strapotere acquisito nei decenni da parte di queste nuove pericolose realtà, complice la crisi delle sale di cinema, innescato dall’avvento della televisione e dalla nuova tecnologia che ha preso rapidissimamente la mano, non sembra però disintegrare un’idea di cinema artigianale che vuole e cerca i propri spazi di espressione e di fruizione col pubblico. Vuole credere che quel tipo di pubblico ritenga come ancora necessaria, fondamentale l’esperienza del grande schermo in luoghi adibiti appositamente per quello, secondo quell’esperienza immersiva di cui si era parlato facendo riferimento ai nickelodeon degli albori. Il sano artigianato che ha spesso e volentieri contraddistinto il miglior cinema anche di genere, che ha favorito la nascita e la proliferazione di tante forme, non subalterne, di b-movies, che a volte hanno poco da invidiare ai cosiddetti di serie A, perché a funzionare, di base, deve essere sempre l’idea, il soggetto, e il modo in cui viene reso per immagini, anche e soprattutto per mezzo del fondamentale supporto della credibilità, dell’autenticità attoriale. Cinema industriale, cinema artigianale, film d’art, accademia o libera creatività di natura artistica. La sostanza poco cambia nel corso del tempo. Ogni film, che sia di grande, medio, piccolo o micro-budget, ha una sua sintassi e una ridefinizione degli schemi utile a generare una personalità affabulatrice simile alla magia, qualcosa di potente che intende, non troppo sotterraneamente, combattere l’idea di una fine. Da qui l’idea, specie nel cinema postmoderno, di un finale aperto. Un finale che non definisce le storie dei personaggi che racconta, o perlomeno non offre loro una conclusione, ma li oppone al contrario ad un’evoluzione della quale si fanno carico gli stessi spettatori, portati ad immaginare un prosieguo ed una eventuale conclusione alle loro avventure, alle loro conquiste o alle loro disfatte. Perché di questo è fatta la vita, quindi il cinema che conta. Un cinema che pone delle domande e che fa riflettere, che indugia o frammenta ma che cerca di farlo con cognizione di causa. Il cinema, in questo senso, è l’estremo tentativo di opporre la vitalità alla morte.