The Father

Ci sembra familiare la casa di Anthony. Interni borghesi decorosi, a tratti eleganti, raffinati. Si direbbe una dimora di artisti. Seguiamo la disposizione degli arredi a piccoli passi, come farebbe un ospite curioso e attento. Ma ci sembra tutto familiare, come se avessimo scelto ogni singolo particolare delle stanze. Quindi non dovremmo essere degli ospiti. Diversi quadri e in uno in particolare un ricordo, un frammento, una scheggia dal passato memoriale. I frammenti dell’esistenza dell’anziano uomo, affetto da demenza senile, si sparpagliano negli spazi stretti della casa, tra un letto e un divano, un tavolo per la colazione e una finestra oltre la quale scoprire il vicinato esterno, su un’anonima strada semideserta. Anthony è, non a caso, Anthony Hopkins, la sua stessa età. E colei che convive con l’uomo è la figlia Anne, già proiettata verso un futuro a Parigi, dove non si parla inglese. Ma non sembra essere la sola. Sembra esserci anche un’altra figlia più giovane, Laura. Forse sì, forse no. A un certo punto appaiono anche degli sconosciuti, un tantino invadenti e presuntuosi. C’è una figlia di troppo nel marasma dei ricordi o forse qualche intruso.

Lo sforzo che lo sceneggiatore e regista Florian Zeller ci chiede di fare è quello d’immedesimarci nella mente frammentata dell’uomo, richiamandoci a una soggettività spaesata, che a piccoli passi si stupisce delle sue traiettorie, percependo quasi il pericolo della venuta di un estraneo nella stessa casa. La prossimità verso l’incapacità d’intendere e di riconoscere i propri cari, insita nel processo irreversibile della malattia in fase di sviluppo, connette la gelosa custodia della casa, più volte rivendicata dal decentrato Anthony, a una clinica. Veduta in prospettiva o effettiva presenza da paziente? Lo sguardo disorientato di Hopkins e il suo costante, umorale, approssimarsi a repentine accensioni nervose e a spegnimenti percettivi, si cuce addosso all’enorme talento espressivo del grande attore britannico, in un’interpretazione magistrale, sublime. Florian Zeller, che con estrema intelligenza gli sta sempre addosso, muovendo lentissimamente in maniera quasi invisibile la cinepresa, soppesando il dramma da camera sulla misura espressiva delle potenzialità di un ruolo d’oro per un attore d’alto calibro, gli affianca la misurata e sensibile Olivia Colman, che si rivela il partner di scena ideale. Non è l’esagerazione melodrammatica però a interessare Zeller, non la pulsionale concatenazione di sentimenti troppo espliciti. Lo possiamo intuire anche dall’utilizzo della musica: un soffiato melodico che di tanto in tanto subentra in scena con la morbida, carezzevole impronta di un’aria d’opera che ci dà memoria emotiva, tanto per riuscire a tastare il terreno e non disorientarsi del tutto, senza l’urgenza di gridare al mondo un messaggio. Ce n’è, ma suona sottovoce, esplicitata da un paio di cuffie, da uno stereo, da un passaggio del tempo, un ricordo, da un passato lontano, dal sogno, dall’anima. Tutto molto ponderato, si potrebbe dire persino tarato, nell’altrettanto sublime regia. L’orologio di cui ha sempre bisogno Anthony e che non ha praticamente mai al polso, sembra essere anche per noi l’unica salvezza. Perché il tempo non si può fermare e tende ad essere ingannevole. Allarma la coscienza di Anthony che tenta di appigliarsi ai ricordi ma inevitabilmente è il falcidio di un dramma a riemergere da quella coscienza scottata. Anne è sempre lì accanto ma non potrà esserci per sempre. Anthony lo percepisce. Il suo sguardo è smarrito ma pulsa ancora di luccichii. C’è ancora vita, nonostante nulla appaia in ordine. Florian Zeller fila una tela di accadimenti che si dipanano secondo le forme di un intorpidito alternarsi di brandelli di psicologia e di sublimazioni drammaturgicamente tese verso l’impiantito di un film come Amour di Michael Haneke. Serpeggia simile substrato d’inquietudine, tutto teso verso la forza di un carattere che poco a poco tende a negarsi all’evidenza, costruendosi sottotetti dove osservare i trascorsi sempre dalla stessa sdrucciolevole prospettiva. Persino quando l’evidenza inabissa la ragion perduta, e per la prima volta nella storia si declama l’appartenenza alla madre, Anthony, Hopkins, comincia a perdere le sue foglie, come un albero, non un alberello qualsiasi. A pochi passi da un abbraccio stretto sul letto della camera della clinica privata, il vento soffia su grandi alberi di un verde che ci appare ancora più verde del solito. Torniamo a respirare anche noi, offrendo ossigeno alla mente in subbuglio. Quel verde non è mai stato così verde e il vento raramente così piacevole. Forse sì, forse no. Ma ci sta e ci perdiamo dentro. Ali per la nostra corazza. Dentro quel verde, dentro quel vento, sopra quegli alberi, laddove non possiamo fare a meno delle foglie che gli aliti di vita rischiano, lesti, di rapire via.

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