Incontro con Vittorio Giacci

a cura di Federico Mattioni

Giornalista pubblicista, critico cinematografico, docente di storia e linguaggio del cinema, esperto di comunicazioni, mass-media, spettacolo, di problemi di mercato cinematografico internazionale, di promozione, restauro e multimedialità. Per via dei suoi studi e del certificato di laurea conseguito, è anche esperto in materia di diritto d’autore. Redattore di riviste importanti di settore quali Filmcritica e Cineforum, membro di giuria di numerosi festival e consulente del cinema per diversi enti, istituzioni, organizzazioni, luoghi di cultura entro i quali sviluppare un profondo amore per il cinema, Vittorio Giacci è autore, oltre che di documentari, anche di un interessantissimo e denso volume di semiotica e critica cinematografica denominato “Immagine Immaginaria. Analisi e interpretazione del segno cinematografico”. Questo incontro d’autore, vuole approfondire l’esigenza di scrittura che nasce da questo profondo amore e anche il suo conseguente sviluppo, tale da permettere la nascita di un testo, a mio avviso, di fondamentale importanza, tanto per il neofita, quanto per l’esperto che vuole ripassare poeticamente le basi.

1. Partirei da un dato sul quale spesso si tende a confondersi. Semiotica, ovvero studio del linguaggio, con semiologia, vale a dire studio dei segni, dei codici che stabiliscono la natura di quel linguaggio, la sua forma, la genesi e lo sviluppo. Dico bene? In pratica, il pensiero critico di Metz in cooperazione o contrapposizione con quello di Barthès? Il suo saggio nasce a partire proprio dalle tesi strutturaliste raccolte negli scritti di Christian Metz che hanno la loro origine in un articolo pubblicato nel 1964?

Le elaborazioni degli strutturalisti e dei semiologici, avvenute agli inizi degli anni Sessanta, hanno rivoluzionato le analisi e le interpretazioni sul cinema che da quel momento, da senso diventa segno, o meglio, il cui senso è dato dall’essere segno, quindi bisognoso di strumenti linguistico-formali per essere decifrato nella sua significazione. Gli studi di Roland Barthes, che lavora sulla decodificazione in senso strutturale del linguaggio filmico evidenziandone leggi, codici e regole, e di Christian Metz, che immette in questa lettura anche l’elemento psicamistico-percettivo, sono stati decisivi al proposito, spazzando via (anche se permangono notevoli arretratezze soprattutto da parte della critica italiana) teorie contenutistiche  basate in via pressoché esclusiva sul mero significato letterale, primario, univoco, quando non altrettanto meramente ideologico, privilegiando “il cosa” anziché “il come”, ed in ciò costituendo una concezione interpretativa inammissibile per ogni altra arte. Ad essi si devono aggiungere gli studi di Gilles Deleuze (in special modo i fondamentali Immagine-Tempo e Immagine-Movimento) e di Umberto Eco (in special modo Opera aperta e Semiotica e filosofia del linguaggio), insieme alle esperienze dell’Ecole du Regard e del Nouveau Roman (Alain Resnais, Alain Robbe-Grillet, Marguerite Duras, Michel Butor). E’ grazie a loro che il cinema è entrato a pieno titolo nell’era della modernità, con il Movimento della “Nouvelle Vague” (Jean-Luc Godard, François Truffaut, Jacques Doniol-Valcroze, Claude Chabrol, Jacques Rivette, Eric Rohmer).

2. Immagine Immaginaria evoca tante cose, come titolo. Mi fa pensare alla forza delle immagini presenti in un film tramite l’unità minima che è l’inquadratura, poi però dietro c’è tutto un mondo a parte che concerne l’immaginazione. Dentro questo immaginario dialogo con i teorici e con tutti quei cineasti che hanno fatto sì che si sviluppasse in varie direzioni, quanto pensa di averci messo di didattica e quanto di libera, personale, interpretativa intuizione?

Immagine-Immaginaria è stato concepito come libro di testo per studenti di cinema, quindi con intento prioritariamente didattico-formativo. Lo scopo era di stimolare un processo di apprendimento che agevolasse l’approccio alle diverse teoriche che nel corso del suo primo secolo di vita avevano accompagnato e nutrito quest’arte, fornendole i requisiti linguistico-estetico.espressivo di cui aveva bisogno per costituirsi in maturo linguaggio per immagini. Obiettivo principale di quel saggio era di superare l’equivoco del reale, e cioè che il cinema, che più di ogni altra arte, in quanto comunicazione per immagini in movimento,  presenta al suo fruitore la più alta “impressione di realtà”, dichiarandone la sua valenza inevitabilmente immaginifica, ancorché realistica. E dimostrare così che un film, anche il più documentaristico, non è mai “registrazione” e neppure “presentazione del Reale” ma “rap-presentazione”, espressione cioè di un pensiero visivo generato da qualcuno (l’autore) posto dietro la cinepresa, e che per tale ragione essa non può in alcun modo essere oggettiva ma sempre soggettiva o connotata da polivalenza di senso e da intrinseca ambiguità, dunque immaginaria.

3. Secondo me il suo libro è come una mappa entro la quale navigare. Navigare non solo nei film ma anche nel pensiero dei più stimati teorici. La storia del cinema, a me personalmente, piace esplorarla attraverso delle rotte senza un ordine, una specifica direzione, lasciandosi trasportare dai ricordi. Difatti sto scrivendo un libro che analizza la storia del cinema in questo modo, dal titolo Viaggio Disorganizzato nella Storia del Cinema. Ogni film ti conduce inevitabilmente ad un altro ad esso collegato. È proprio in questo modo che ho letto e riletto il suo libro. Lei, a posteriori e a mente fredda e rilassata, come lo inquadra?

Lei ha colto esattamente senso e metodo di quel testo. Si trattava infatti,  di un percorso volutamente “reticolare” e non lineare, dunque non meccanicamente cronologico, mentre   purtroppo lo sono spesso, ancora oggi, i libri di storia del cinema -in quanto l’arte  (ed il cinema ne rappresenta la Settima), per sua stessa natura, è a-temporale- e partiva dal presupposto che autori ed opere non siano “monadi” isolate ed autosufficienti, allineate lungo un tragitto rigidamente temporale, senza scosse, ritorni o deviazioni, ma un sistema di continue inter-connessioni, confluenze e corrispondenze. Opere ed autori si parlano, in modo diretto o indiretto, al di là del tempo e dello spazio, e, in modo cosciente o inconscio, dialogano tra loro e si influenzano vicendevolmente. Non esiste cineasta, per isolato che sia, che non abbia relazioni con Scuole o Movimenti di appartenenza, nè opera che non abbia a che vedere con la storia più generale del cinema, che non debba fare i conti con il passato, la memoria,  il ricordo ri-attualizzato di precedenti esperienze. La cosiddetta Cancel Culture, in questo campo, oltre ad essere un obbrobrio culturale, è un non senso intellettuale.

4. Un’altra cosa che ha catturato fortemente l’attenzione è quella di aver disposto l’analisi critica come un flusso, privo di apparati critici e note a margine che avrebbero appesantito il testo, fornendo una concentrazione memoriale della storia e di tutte le correnti più rilevanti della storia che sembra esplicitarsi con modalità simili a quelle dell’immensa anima cosmica presente in Solaris che non a caso nella sua premessa, cita.

Il rimettere in discussione principi -o pregiudizi- ancora radicati e, al tempo stesso, mettere in relazione i collegamenti teorici su quest’arte richiedeva l’opportunità di una comunicazione che fosse la più piana e fluida possibile, come può esserlo, più che una lezione, una conversazione, dunque senza citazioni o note a margine. Pertanto gli strumenti di approfondimento erano tutti riportati in un ampio apparato bibliografico, al termine del volume.

5. Vorrei soffermarmi un poco sulla questione del verosimile. Secondo alcuni teorici, il cinema sembra funzionare solamente quando opera ad imitazione del reale. Secondo lei non rischia di diventare una trappola?

La teoria del “verosimile” è la conseguenza logica di quanto prima esposto sul Reale. Per sua natura, un film, frutto di numerose attività di elaborazione e ri-elaborazione  (soggetto, trattamento, sceneggiatura, ripresa, montaggio, post-produzione) non potrà mai essere “vero” ma solo “verosimile”, cioè creare nello spettatore la percezione che ciò che vede (e che sa essere oggetto di finzione), sia però credibile. Chiunque operi con l’immagine cinematografica conosce questa “legge” per la quale nel cinema non è la verità ma la verosimiglianza a vincere. Al cinema infatti, può risultare vero qualcosa che in realtà non lo è purché appaia filmicamente accettabile, mentre non lo sarà  mai qualcosa che, pur se vero, non appaia al tempo stesso verosimile sotto il profilo diegetico, narrativo. L’esempio più tangibile lo ha fornito un artista esperto di tale complessa e per molti versi misteriosa relazione, Andy Warhol, il quale ha filmato per diverse ore, senza stacchi né manipolazioni, l’ingresso dell’Empire State Building a New York. La proiezione di questo film restituiva fedelmente una immagine quanto mai reale poiché la cinepresa aveva realmente “registrato” senza alcune interferenza. Il pubblico però, anziché identificarsi in quel bagno di realtà, mostrava invece segni inizialmente di estraneità, poi di progressiva insofferenza fino ad abbandonare la sala. E ciò avveniva perché mancava totalmente il ritmo narrativo e l’elemento drammaturgico, requisiti indispensabili per accendere attenzione e generare identificazione. E’ infatti la Narrazione, con i suoi snodi e le sue accelerazioni o compressioni spaziali e temporali e non la Realtà, il dispositivo qualificante del cinema. Ecco perché risulta così decisiva, sia per la fruizione spettatoriale che per la creatività autoriale la conoscenza strutturale e semiologica dell’opera filmica.

6. Che cos’è il cinema. Eterna domanda, priva probabilmente di una soddisfacente risposta. Dentro questa confusione, nella quale la televisione sembra avere preso ormai il sopravvento inglobando persino alcuni dei più grandi autori (vedi le ultime produzioni Netflix dei film di Scorsese, Spike Lee, Fincher), dentro questo bisogno venale di serialità che ha finito per appiattire oltremisura il confine sempre più sottile tra opera cinematografica e opera televisiva, si può ancora pensare di essere prossimi alla ennesima evoluzione?

Questa domanda se l’era posta, già nel 1958, André Bazin, il più autorevole critico francese, fondatore e direttore della rivista di cinema più famosa al mondo, i “Cahiers du Cinéma” nel libro, intitolato appunto, Che cos’è il cinema? Impossibile, oggi più che mai, dare risposta netta e semplice riguardo ad un oggetto così complesso e articolato come quest’arte che tutte le altre può ricomprendere al proprio interno così come le scienze e le attività del pensiero. Per risolvere il quesito conviene forse circoscrivere il più possibile il “fenomeno” cinema ai suoi aspetti più elementari ed affermare che ovunque vi siano riunite due o più persone per vedere immagini riprodotte e con-dividere emozioni, lì vi è cinema. Dico almeno due come unità numerica minima perché non è necessario disporre di una folla, ma neppure un unico individuo. Il cinema è infatti un’entità pensante realizzata in modalità collettiva e che si trasmette, e per far ciò richiede un minimo di collegialità, perché è in questa che si comunicano sentimenti ed emozioni. E’ noto a tutti, ad es. che il riso, più del pianto, ha maggior efficacia se condiviso, così come una platea che vibra all’unisono di sensazioni, emozioni, accentua l’emotività individuale. Certamente la globalizzazione della comunicazione da un lato accentua questa predisposizione ma dall’altro ne può mortificare la concentrazione rispetto a tematiche più approfondite o a stili e linguaggi particolarmente sofisticati. La salvezza del cinema sarà nella differenziazione pluralistica dei luoghi di aggregazione e dei momenti di fruizione.

7. Un esempio di cinema di prosa e un esempio di cinema di poesia nel cinema contemporaneo (scaturendo da uno dei paragrafi più interessanti del libro).

Questa distinzione, teorizzata soprattutto da Pier Paolo Pasolini, riguarda il rapporto che si instaura tra chi fa e chi guarda. Si ha opera di prosa quando il regista sembra scomparire dietro la storia, la quale pertanto sembra raccontarsi da sola, in maniera oggettiva. Si ha invece opera di poesia quando l’autore “fa sentire” che la cinepresa non opera da sé ma che è guidata da una personalità che comunica di non star raccontando il mondo ma il “suo mondo”, un mondo personale e soggettivo, e lo sta esprimendo in forma di pensiero visivo.  Il rapporto che si crea in questo modo tra film e spettatore non è più tra un soggetto ed un oggetto, ma tra due soggetti. Diventa un dialogo. Nel primo caso si avrà, per l’appunto, un regista, cioè colui il quale coordina e dirige le varie discipline in campo al fine di svolgere un racconto, nel secondo un autore, la cui finalità è di mettere in scena la propria personalità artistica unitamente alla propria visione del mondo.

8. Ogni decennio, si può dire che ha contribuito, attraverso varie forme d’innovazioni linguistiche, tecniche e di racconto, all’evoluzione della storia del cinema ma c’è un’epoca in particolare che lei ritiene essere spartiacque per quelle a venire?

Premesso che ogni Movimento deve sempre la propria nascita a qualcosa che l’ha preceduto, i due grandi rivolgimenti estetici che hanno più radicalmente innovato il cinema sono stati senz’altro il Neorealismo italiano e la Nouvelle Vague francese. Tutto il resto è avvenuto di conseguenza e si è diffuso in tutte le cinematografie del mondo. Con Neorealismo il cinema ha conquistato il diritto di essere, oltre che artistico, fenomeno etico, civile e sociale; con la Nouvelle Vague ha acquisto quella consapevolezza di linguaggio che lo ha fatto entrare di diritto tra le arti della modernità. La loro importanza, superiore a quella di altre Scuole straordinarie come le Avanguardie francese e russe, il Surrealismo, l’Espressionismo, si riscontra nella loro capacità di generare altri movimenti, dal Free Cinema inglese al New Cinema americano, dal Nuovo Cinema Tedesco al Cinema Novo Brasiliano, alla diverse cinematografie dell’Africa e dell’Asia.

9. Uno sguardo al cinema del presente, all’accademismo forzato, agli esercizi di stile che non sembrano essere più neanche dei laboratori di decomposizione ma vuoti e sterili riproposizioni “alla maniera di”. Insomma, dietro a questo caos invadente, intravvede una luce? Insomma, i bravi cineasti continuano ad esserci, nonostante tutto, quindi le azzardo a chiedere come se lo immagina il cinema entro il 2030.

Il cinema, nel corso della sua storia, è stato continuamente arte dell’innovazione, dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore, dalla pellicola di celluloide al nastro elettronico, dal sistema analogico a quello digitale. Certamente, le innovazioni attuali disegnano una fase completamente nuova e diversa ed è oggi molto difficile dire dove porterà. Si può però essere certi che il bisogno dell’uomo di comunicare per immagini, che è precedente non solo al cinema ma ad ogni altra forma di comunicazione, non potrà esaurirsi, così come la necessità -ed il piacere- di raccontare, poiché raccontare è capire. Chiamiamolo pure come vogliano, ma questo bisogno/piacere di trasmettersi emozioni non potrà cessare, quale che ne saranno la forma espressiva ed i relativi dispositivi diegetici.

10. Se dovessero obbligarla, per via della sua conoscenza ed enorme esperienza nel campo, nell’introdurre nelle scuole dell’obbligo la disciplina di storia e critica del cinema, il restauro di un capolavoro per ogni decennio della storia, dagli anni ’20 del ‘900 fino agli anni ’20 del 2000. Quali sarebbero i suoi dieci capolavori imprescindibili che indicherebbe come oggetto di studio? Se vuole, può fornire una sinteticissima (una frase) motivazione per ciascuna scelta. Un po’ come idealmente fa con i registi nel paragrafo sugli Esercizi di Stile

Impossibile racchiudere in pochi titoli un patrimonio così vasto come quello cinematografico, ed infinite sono state le elencazioni e le classifiche redatte sia da esperti del settore sia dal pubblico, ed in esse si tramandano capolavori indiscussi, intangibili e irrinunciabili: per tutti Nascita di una nazione (1915) e Intolerance (1916) di David W. Griffith; La corazzata Potemkin (1925) di Sergej Ejzenstein; Metropolis (1927) di Fritz Lang; Quarto potere (1941) di Orson Welles; Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945); Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948); tutta l’opera di Charlie Chaplin. Personalmente amo molto i film sul cinema e gli autori che in tal modo riflettono -e auto-riflettono- su quest’arte, fornendo preziosi strumenti di conoscenza  e di ricerca validi oltre il valore delle singole opere. Mi sento pertanto di optare per questo criterio  indicando i seguenti titoli, ben sapendo che, fortunatamente, se ne potrebbero e dovrebbero citare molti, molti, molti di più:

8 ½  (Federico Fellini, 1963)

Effetto Notte (François Truffaut, 1973)

Viale del tramonto (Billy Wilder, 1950)

Gli ultimi fuochi (Elia Kazan, 1976)

Il disprezzo (Jean-Luc Godard, 1963)

Due settimane in un’altra città (Vincente Minnelli, 1962)

The cameraman (Buster Keaton, 1928)

L’uomo con la macchina da presa (Dziga Vertov, 1929)

Bellissima (Luchino Visconti, 1951)

Splendor (Ettore Scola, 1987)

Nuovo cinema Paradiso (Giuseppe Tornatore, 1988)

Celluloide (Carlo Lizzani, 1996)

Vanno ricordati, anche se apparentemente sembra che non siano “film nel film” e che non parlino di cinema:

– La donna che visse due volte (Alfred Hitchcock, 1958)

– Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966)

– Quell’oscuro oggetto del desiderio (Luis Bunuel, 1977)

Vittorio Giacci

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