
Le radici dell’algida terra islandese, una fattoria di famiglia popolata da ovini, il ripetitivo rituale quotidiano di allevamento, rigorosamente seguito sul set da un vero e proprio allevatore. La vicenda di Maria e Ingvar che si snoda muta in un lutto alle spalle non del tutto superato, lo spunto per allacciarsi al folklore dei racconti primigeni nordici derivante da un sogno inquietante e curioso che il regista fa, di quelle novelle popolate da strane creature, metà uomo e metà animale. La prima voce la udiamo ufficialmente da Radio Reykyavik che annuncia un buon Natale, invitando alla preghiera, alla cura mancata del prossimo in sostanza. I due coniugi, prima di ricevere la visita del di lui discolo fratello, che tuttavia li mette in guardia da un substrato di pericolo, procedono imperterriti con i loro riti, fino a che non si presenta l’opportunità per dare un senso ulteriore alla loro unione in crisi di comunicazione (neanche l’eventuale possibilità di viaggiare nel tempo, paventata in uno dei rari dialoghi presenti tra loro, sembrerebbe riabilitarla). E l’opportunità fuoriesce letteralmente da una grande pecora che partorisce un essere metà pecorella e metà bambina. Decidono di accudirla come un essere umano, senza porre differenza alcuna. La chiamano Ada (Heidi malferma nei campi?). Senza quella pecorella disorientata, con una zampa destra e una mano sinistra – come sinistro comincia a rivelarsi il cosiddetto perturbante che subentra, facendo sbarellare la quiete riottenuta – la madre proprio non riesce a starci. La cerca convintamente, tentando di annusarla a distanza. Minaccia con la sua presenza la famiglia, così Maria decide di privarsi della sua vista. Questo fatto però dovrà necessariamente fare i conti con il risveglio brutale dal rapporto con quella natura che si pensa di poter dominare “perché una convivenza idilliaca può sempre essere possibile lontano dai corruttori fasti del mondo”. E avrà a che vedere con un incrocio caprino. Il conflitto interiore, tipico del dramma familiare, trasfigurato nell’osservazione muta del pleonastico paesaggio islandese, si riempie gradatamente in un odore di putrefazione molto umano. Le vite dei tre personaggi non sono pulite come l’aria che respirano e non tutto si fa a tempo a riparare, quando l’aria cambia vento. Vladimir Jóhannsson, forte di una significativa esperienza a Hollywood come responsabile degli effetti speciali di alcuni film ad altissimo budget, esordisce come regista e sceneggiatore, in coppia con Sjón, cercando e trovando una strada alternativa, insolita e coraggiosa, per ovviare alle etichette di film di un certo tipo di genere. Questo Lamb intriga assai perché si smarca dal genere horror (e dall’urgenza di gran parte degli horror contemporanei di gridare il loro terrore schizzando urla di furore e sangue a litri), ricostituendo il fascino ancestrale della fiaba oscura con quel realismo magico, votato al frangente di film come lo svedese Borders. Nel conflitto interno in interni, nel non detto, nel sospeso, la tensione che si respira dal vuoto esistenziale che apre inevitabilmente le porte al contatto intimo con l’astrazione, devota proprio a quel genere di paesaggio, sembra di sostare a momenti dalle parti de “L’ora del lupo” di Ingmar Bergman, e negli spogli interni del Carl Thedoror Dreyer di quell’incredibile capolavoro che risponde al nome “Ordet”. La parola che manca, la parola muta, l’osservazione di un possibile dialogo negli sguardi carichi di apprensione e presaghi di un disegno evidentemente più grande del riconoscibile. La ricerca e la connessione che il regista intimamente ricerca con le lande isolate ma non troppo desolate, si sviluppa anche su un piano prettamente sonoro quasi bressoniano, ibridate con i parchi moti dell’animo, dilatati in tempi e spazi che necessitano di un confacente respiro armonico. Non può esserci un passo differente, ogni singolo gesto è solidamente distillato, proprio come ogni singola folata di vento, proprio come il silenzio che in questo film vale più della parola. Lamb centripeta un breve idillio nel catartico territorio islandese, funestato dal sopraggiungere di una profezia che interviene crudelmente sulla ragion ferita. Una ragione che il corpo e il volto di Noomi Rapace, sensuale e squadrato, incarna alla perfezione, in quella che è forse la sua più intensa interpretazione della carriera. “Mi sono riappropriata di quella capacità di recitare anche con il linguaggio del corpo”, confessa l’attrice svedese, con origini spagnole e cresciuta proprio in Islanda. Non può non prendere il sopravvento allora, la sensazione palpabile di un disteso esistenzialismo di natura che si oppone ad una umanità incapace a ravvedersi della propria manifesta, patologica superiorità ferina. Il passo da uomo-animale a bestia è millimetrico ed è fatto d’inevitabili pulsioni. L’impenetrabile mistero dell’esistere soffia funesto sulle cose, sugli uomini, un po’ come nella incommensurabile lezione di cinema di Béla Tarr (non a caso tra i produttori esecutivi del film). Perché il cinema puro trae la sua forza e la sua linfa vitale dall’invisibile, dal dialogico fuori campo, dal non detto, dal sottaciuto, dal subodorato. Manovre tipiche di ogni conflitto che si rispetti, che sia di natura d’animale, d’uomo, primordiale. Scovar differenza si vuole, irrispettosamente.
