
Il Texas assolato e polveroso, quella selvaggia terra dov’è possibile incrociare derelitti umani disposti a tutto pur d’impedire la venuta di turisti, disturbatori dell’apparente quiete, già oggetto di molti film western, thriller e horror, si conferma sempre terreno vergine per un certo genere di operazioni di ricollocamento. Ti West, regista nato indipendente e abile ripropositore di temi e motivi legati al soprannaturale degli anni Settanta (miglior esempio è senz’altro The House of the Devil), ambienta questo suo nuovo film nel 1979, proprio quando anche un altro genere era ormai all’apice, il porno. In questa vicenda dove il softcore si coniuga con la paura facendo accoppiata classica, il motivo centrale della storia del film che ricalca il tradizionale viaggio di un gruppo di giovani che in un week-end andranno incontro ad esperienze terrorizzanti e tragiche, diviene una sorta di rivolta di natura geriatrica, da parte di quella generazione che ai precetti di un integralismo religioso sfociante nel fanatismo di discendenza puritana, ha piegato le anche, genuflettendosi nella privazione costante del piacere sessuale, scisso dal piacere ai fini riproduttivi. I giovani si recano, secondo accordi precedentemente stabiliti stavolta, in un isolato terreno di campagna, nel quale prendono loco in una delle due case appartenenti ad un burbero e decrepito signore. Ancor più disturbante risulta essere la figura della moglie del proprietario che nonostante tutto è ancora solleticata da curiosi appetiti sessuali. Difatti, la banda di giovani aitanti ha affittato quella casa per girarci, a insaputa dei vecchietti, un film porno. Sono tutti molto giovani e sfacciati, specialmente le ragazze. Una di esse, la più curiosa e sotto l’effetto della droga che andava per la maggiore, sente la necessità di prendersi una pausa dal set e di curiosare nei dintorni esterni. Tra le due dimore c’è un grande lago che apre le porte ulteriormente all’immaginazione (anche a Friday the 13, per forza di cose). Cosa ci sarà nascosto all’interno? In mezzo alla troupe, a un produttore che sembra un cowboy e a un regista nerd, risalta il canonico stallone nero dal pene vigoroso che stimola le fantasie, alimentando gli appetiti delle attrici e non solo, anche di chi nella troupe dovrebbe attenersi soltanto a un aiuto regia, in questo caso alla fonia. Il gioco, nello stimolare inconsapevolmente appetiti (e fastidi) che credevano ormai archiviati nella latente vecchiaia, si fa oltremodo pericoloso. C’è un elevato tasso di appartenenza seventies nel film, a partire dalla famiglia di terribili assassini cui apparteneva un certo Leatherface in The Texas Chainsaw Massacre, passando per il folle proprietario del motel vicino alla palude che aveva il vizio di dare in pasto all’alligatore vicino coloro che ospitava nella struttura in Eaten Alive (ancora di Tobe Hooper), per finire poi a cavallo con gli anni Ottanta e tutto il filone delle case nel bosco che tornano a mietere vittime, fino ai giorni nostri con Eli Roth (non a caso West esordisce con il sequel del suo Cabin Fever) e Rob Zombie. Ma nonostante questi famigerati e battuti appigli, il film di West riesce nell’impresa quasi impossibile di raccontare qualcosa di nuovo, pur partendo da elementi ampiamente forgiati, anzi direi proprio sagomati, nel corso della storia dei film dell’orrore. A parte il tema della liberazione sessuale che si scontra con quel tentativo di rigido controllo di quelle libertà da parte della società, quindi dei suoi padri e padrini, in tutte le sue forme, A Sexy Horror Story ha il pregio di utilizzare il gore con parsimonia, prendendosi i suoi tempi nell’attesa escalation di violenza, privilegiando certe atmosfere di mistero e di terrore, senza palesare l’urgenza di correre al macello di quei bei corpi che necessitano per tempo di qualche botta di salutare abbandono ai piaceri della carne. Quel sentore di sconfinamento nel peccato, quella tipica puzza di bruciato si deforma in una diatriba rosso sangue che ha anche il sapore di un vecchio cinereo. La grana delle immagini è fedele alle origini, lo sguardo penetra facilmente nell’epoca recuperandone le fondamenta con un’abilità consumata nell’offrire la sensazione di parlare al presente. A Mia Goth, protagonista assoluta del film in due ruoli centrali contrapposti ma simbiotici, padrona di una sessualità languida che provoca e disturba con inusitata grazia, muovendosi imperturbabile con ingenua arditezza, viene fatta appartenere quella tendenza al sacrificio che torna in diversi passaggi del film e che finisce per essere abile strumento di ribaltamento degli stereotipi. Consapevoli che siamo nel decennio di film turbinosamente efferati e psicologicamente devastanti come L’Esorcista e Non aprite quella porta, e in quello della diffusione di film di registi quali ad esempio Gerard Damiano e John Derek, possiamo fare il sacrificio di tornare a godere di goduriosi brividi che nonostante le apparenze, riusciranno sicuramente a farvi sobbalzare dalla poltrona con l’ausilio di qualche perizia psicologica legata a doppio filo a un finale magnificamente congegnato, nel tentativo di lasciar assorbire, pari merito, scotti e afflizioni, sperma e sangue.