Un futuro verosimile. Il Tevere prosciugato dalla siccità, la pioggia che si è dimenticata di scendere e le vite degli abitanti di Roma che faticano a riconoscersi. Si sfiorano a debita distanza e si difendono come possono dai soprusi e dai conflitti aberranti degli interni di condomini invasi dalle blatte. Sono esseri umani in perenne ritardo con le occasioni della vita, intrappolati in una realtà in grave affanno, martoriata da calamità che lasciano filtrare solo i colori di una rivalsa della natura. Non ambisce a realizzare un film sui problemi dell’ambiente Paolo Virzì, regista e sceneggiatore a otto mani, in dolce compagnia di Francesco Piccolo (ormai immancabile nei film italiani a sfondo sentimental-sociale), Paolo Giordano e Francesca Archibugi. Piuttosto, la siccità del titolo è un riflesso di tutti coloro, piuttosto numerosi e dai volti più e meno noti, che anelano una diversa collocazione. Non può non rientrarvi nel meccanismo anche la vecchia, stantia politica, che però si fa distorsione emotiva, a confronto con lo schernimento fuori fuoco di quello che risulta essere il personaggio più interessante, divertente, meglio denotato a livello umoristico, il tassista interpretato da un maturo Valerio Mastandrea, ex autista di auto blu, preda di una ingestibile insonnia e vittima di frustranti, disarmanti allucinazioni. Ovviamente non possono mancare all’appello i consueti disagi coniugali, il rapporto troncato con le figlie, i figli persi e poi ritrovati, gli amanti semi-nascosti e costantemente attaccati ai cellulari nel tentativo di sentirsi vicini, distrattamente imprigionati dentro un’idea del conforto deformata da una socialità aberrante, la nuova svolta degli attori riciclatisi influencer per non smarrire le redini con il proprio pubblico (o con quel che ne rimane), in un arrancato tentativo di connettersi con la nuova generazione, tuttavia, abbandonata da quegli stessi adulti in balia di tutti i rigurgitati disagi del mondo. E poi, nel mezzo, furti dalle conseguenze impreviste, tentativi abortiti di addentrarsi in un panorama di desolante rassegnazione/corruzione tramite una timida o forse goffa intrusione giornalistica, e baci e abbracci a corredo, nonostante tutto. Sostanzialmente, il nuovo film di Virzì, non racconta nulla di nuovo, dietro la sua copertina da nuovo azzardato kolossal. Anzi, si lascia prendere la mano da almeno due o tre d’innegabili punti di riferimento, uno su tutti: uno dei capolavori di Robert Altman, quel “Short Cuts – America Oggi” che si permette di citare a più riprese, in un episodio chiave a livello narrativo e nella esplicita enunciazione a Raymond Carver, matrice letteraria dell’opera del grande regista statunitense. La struttura calibrata a incastri, capace di delineare un tracciato che tutto sommato ha una sua incisività, una sufficiente autonomia risolutiva, inacidita nelle traiettorie sbilenche a margine d’incroci e subitanei allontanamenti, rimanda naturalmente anche al nostrano “Il giudizio universale” di Vittorio De Sica, a “Magnolia” di P.T, Anderson, e in maniera minore “Crash” di Paul Haggis e “Babel” di A.G. Iñarritu. Il messaggio che a margine ne evidenzia meglio i tratti, in accorato equilibrio tra sorriso e dolenza dei tratti drammatici in pieno stile Virzì, inquadra il quadro d’insieme senza necessariamente gridare il proprio dolore, evitando di accartocciarsi sulla tentazione, forte, di un cinismo sovrastrutturato che spesso e volentieri film di questo tipo rischiano di strascicarsi. Anche negli accenni al principiarsi di un’epidemia, data dalle condizioni di vita tutt’altro che igieniche, non si percepisce più di tanto quella tentazione di scrollarsi di dosso piccole invettive che sommate in sferzate qua e là pungenti, aiutano comunque a far riflettere. L’ambizione di voler diluire più che sintetizzare una pietas umana complessivamente miserabile, conduce a delle buone risultanti più che altro per la maniera in cui le vicende si diramano, a lungo senza collegarsi, vincolandosi a delle intercessioni, come le disperazioni esagitate ad un malfermo appiglio. Sembra di assistere ad un atto di coraggio filmico quasi insperato. La struttura del film sembra vincolarsi alle traiettorie di tutti quei personaggi che obiettivamente dimostra di detestare o tutt’al più di compatire, ma sui quali, tutto sommato pone un cappello, o meglio un ombrello con cui ripararsi, finalmente, dalla pioggia. Lì sotto, isolati sull’approssimarsi di un fantomatico raggruppamento, felici di bagnarsi a favore di un film italiano che in questa fase ci appare densamente rilevante – nel mezzo di un contesto generale ancora troppo figlio della storia, della cronaca e delle solite rielaborazioni delle stesse esageratamente romanzate – vi compaiono una sequela di attori di primo e secondo piano, funzionali al disegno e in parte che è quasi inutile elencare. Non è forse un caso però che ad elevarsi, forte della calibrata caratterizzazione, è proprio la figura tratteggiata dal noto interprete romano, capace di donarci una maschera tragicomica che può adattarsi tanto al passato quanto al presente, disorientata e disorientante, dove ogni gesto mimico e battuta tonica, disagio e/o affanno, sovviene al momento esatto. Forse l’unica vera creatura, tra le povere, miserande creature, uscita dalle mani degli sceneggiatori, capace d’imprimersi con autentica percezione, quella di un esemplare d’italiano medio che potrebbe, presto o (troppo) tardi, smettere di cercare(si) una via d’uscita. Un rifugio, il riparo.