Per un metacinema di prospettiva

Partendo dal presupposto che nessun film sfugge alla riflessività, con il concetto di metacinema è da intendersi il cinema, l’invenzione, il mezzo stesso e chi ne è parte integrante, che riflette su se stesso, sul suo evolversi, su coloro che hanno aperto la strada a nuove forme. Il cinema riflessivo che indaga le possibilità del realizzare film può prendere come punto di riferimento anche i soggetti stessi che si espongono di fronte alla cinepresa, gli interpreti, il fenomeno del divismo, il mestiere del regista e i suoi blocchi, le crisi, le intuizioni, il ruolo dei produttori, i tecnici, gli assistenti, le comparse e via dicendo. Spesso e volentieri, i film che riflettono la persuasività del fare cinema e la sua complessità, indagano le prassi dei film che si stanno girando, guardando alla macchina che una volta messa in moto, sul set, coinvolge una miriade di persone e/o centinaia di collaboratori che si prestano sia ad un lavoro artigianale, fisico in presenza, che dietro le quinte e di fronte ad un computer. Sin dagli albori, diversi autori hanno provato a riflettere su tale meccanismo, giocando con le possibilità tecnico-formali ed arrivando ad esporre i macchinari utilizzati, le sale cinematografiche e il pubblico che le popola con parsimonia, sin dall’era dei nickel. C’è da dire che questo fenomeno di auto-riflessività prese forma in primis attraverso altre arti, quali la letteratura, la pittura, e prima ancora nel teatro (Shakespeare prima e Pirandello poi). Si rompe la cosiddetta quarta parete, a favore di un rapporto dialogico con lo spettatore, preso per mano e condotto a riflettere sulla natura del cinema, sulla sua essenza più profonda, attraverso rivelazioni capaci di generare ulteriore curiosità sulle possibilità di riuscita creativa. Tra i primissimi a giocare letteralmente con queste possibilità vi furono Edwin Porter e Georges Méliès, attraverso alcuni cortometraggi. Consci dell’impressione di realtà che il cinema riproduce sullo schermo, producendo un meccanismo di autodifesa percettiva da parte degli spettatori, si possono scatenare delle reazioni destabilizzanti, come se si fosse parte di un’altra dimensione e ci si ritrovasse all’interno dello stesso film. Capita a Buster Keaton in Sherlock Jr. (La palla n.13, 1924), dove un proiezionista, interpretato dallo stesso Keaton, sogna di entrare nel film e di diventare protagonista ed eroe di avventure che nella vita reale non gli sono minimamente concesse, dando sfogo ad una serie di mirabolanti soluzioni visive, tipiche delle strabilianti capacità acrobatiche dell’autore. Prima ancora, Porter. In Uncle Josh at the Moving Picture Show (Lo zio Josh va al cinema, 1902), un uomo si reca al cinema per vedere le pellicole di Thomas A. Edison e reagisce con sentimenti di sgomento e di terrore a quanto scorre su pellicola proprio davanti a lui, sul grande schermo: si dà alla fuga all’arrivo del treno, corre verso lo schermo in soccorso di una ragazza in pericolo e in balia degli eventi, finisce per gettarsi sullo stesso telo sul quale vengono proiettate le immagini e strapparlo. I film possono entrare nelle nostre vite con prepotenza e sconvolgerle in maniera inattesa, tant’è potente il suo sguardo sul mondo. In La Lanterne Magique (La Lanterna Magica, 1903), Georges Méliès inquadra direttamente la lanterna magica, l’oggetto delle rivelazioni che proiettando sul muro fotogrammi in movimento di danzatori (i clown stessi che invece di scatole hanno tra le mani veri e propri proiettori) e poliziotti, ci mostra la meraviglia scaturita dalla tecnica a disposizione dell’uomo. Ma non fu l’unico caso in cui l’inventore francese, uno dei pionieri delle fantasmagorie cinematografiche, finito poi a gestire un negozio di giocattoli, cercò di riflettere sul cinema attraverso l’esposizione delle possibilità della tecnica. Nel 1929, Dziga Vertov, in L’uomo con la macchina da presa, ci mostra una cinepresa al lavoro in una giornata tipo a Mosca. Il popolo si sveglia per andare a lavorare e per passeggiare in centro, i mezzi di trasporto si mettono in moto, in funzione, al pari del mezzo di ripresa che poi sembra scomporsi e diventare un gioco di soggettività fittizia, talmente scomposto ed esagitato da svelare come in un trucco di Méliès, l’architettura demistificante di una realtà impossibile da riprendere e da restituire, nella sua effettiva realtà, veridicità.

Dal punto di vista del divismo, non a caso, furono alcuni registi italiani a rifletterne il vissuto, laddove in pratica nacque. Mario Soldati, Eduardo Bencivenga, Carlo Ludovico Bragaglia, Mario Almirante e Michelangelo Antonioni a partire dagli anni ‘50, alcuni di loro già a partire dall’era del fascismo (Bencivenga ai primordi del muto), realizzarono film con protagoniste delle dive (Francesca Bertini fu tra le prime in assoluto) inquadrate nella loro quotidianità e nelle risultanti di un ruolo, di una posizione che può rivelarsi scomoda, quella di essere costantemente sotto i riflettori. Naturalmente, innumerevoli sono anche le storie d’amore che nascono grazie agli incroci che avvengono sul set e fuori, con personalità tra le più svariate del mondo del cinema. Ed è quello che accade ne La signora senza camelie (1953) di Michelangelo Antonioni, dove una donna, grazie a un concorso di bellezza diventa un’attrice famosa e sposa un produttore. Ella, in realtà, Clara Manni (ben interpretata da Lucia Bosè), ambisce a fare film di maggior impegno, nei quali far emergere le sua capacità interpretative, ma finisce sempre per essere scelta per la sua bellezza. Il produttore marito comincia ad impedirle di recitare in questi film, per gelosia. Riesce ad ottenere il ruolo di Giovanna d’Arco in una importante produzione ma il film è un sonoro insuccesso e il marito finisce sul lastrico. La relazione è destinata a finire, quando Clara è costretta ad accettare di tornare a fare i film con i quali è diventata famosa, con il primo produttore, pur di porre rimedio ai guai finanziari del marito. Conosce un altro uomo con il quale cerca d’imbastire una relazione amorosa, senza successo. Entra in depressione, nessuno crede più in lei e rifiuta ogni proposta lavorativa che non sente nelle sue corde. Non ci sono ruoli importanti per lei. La condanna del concorso di bellezza che l’ha resa famosa. Alla fine, per pura sopravvivenza, è costretta ad accettare parti insulse, senza la possibilità di dimostrare il suo talento. Qui, il cinema muta pelle. Dai fasti del neorealismo, dai problemi della strada, si passa a quelli dell’individuo, della borghesia, finendo nel cuore della crisi dell’individuo e della famiglia che Pirandello tanto abilmente aveva anticipato nelle sue novelle e soprattutto nella sua produzione teatrale degli anni ‘30. Offrivano vicende simili Show People (Maschere di celluloide, 1928) di King Vidor, anche lì un’aspirante attrice che anela ad altro, rispetto a quanto le viene proposto. Ruoli comici al posto di quelli drammatici, di diverso peso. In questo film, diversi sono gli spunti di analisi nella realizzazione di un film, con meccanismi di sdoppiamento e messa in scena di sé e del proprio lavoro (oltre allo stesso regista, compaiono diversi colleghi). E What Price Hollywood? (A che prezzo Hollywood?, 1932) di George Cukor, specializzato in commedia e melodrammi, improntato su una deriva emotiva anti-hollywoodiana. Diverse sono poi le versioni, sempre meno edulcorate con il passare degli anni, riguardo divismo e alcolismo, ascesa e caduta di dive in rampa di lancio, rapidamente cadute dalla superficie stordente della gloria. L’esempio massimo sono le varie versioni di A Star is Born (È nata una stella, 1937 William Wellman, 1954 George Cukor, 1976 Frank Pierson, 2018 Bradley Cooper) ma qualcun altro riesce a scavare più a fondo. Billy Wilder, con Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1950), ci mostra una diva in disfacimento, che dimora all’interno di una lugubre villa, nel costante tentativo, disperato, di riabilitazione memoriale di quella che fu e che mai più potrà tornare ad essere, attraverso filmati e fotografie d’epoca, di colei che sopravvive nel disprezzo del cinema moderno, reo secondo il suo parere, dopo l’invenzione del sonoro, di averne cancellato ogni magia. Un’opinione che si macchia però, da vittima qual’è, di una grave colpa. Coinvolge nel suo gioco crudele, destinato all’annientamento, un soggettista/sceneggiatore che ospitato nella sua villa e divenuto poi suo segreto amante, diviene vittima dei suoi ricatti e delle sue gelosie, mentre è occupato a revisionare una sceneggiatura scritta da lei stessa, incentrata sulle gesta di Salomè. Non è il solo film, ovviamente, a cercare di riflettere ed analizzare le problematiche che scaturiscono dal ruolo del divo o della diva. Prima ancora di Wilder, Max Ophüls, ne La signora di tutti (1934), ci descrive la vita privata di una diva all’apice del successo, preda dell’improvviso e vasto successo pubblico che la conduce rapidamente ad un tentativo di suicidio, incapace di gestirlo. Non tutto può essere roseo, dietro c’è tutto un mondo di bugie e d’interessi meramente economici che se ne infischiano delle esigenze della persona, della privacy, dei bisogni più strettamente necessari. Ad Hollywood, lo studio delle nevrosi, diviene uno degli argomenti più scottanti e di maggiore attrattiva da parte degli Studios. Una modalità perfetta per trattare al meglio un genere come il melodramma, nell’esaltazione a volte forzata delle sue componenti principali, quali l’esasperazione dei sentimenti per mezzo di un conflitto ricercato, l’aspirazione alla libertà personale cui si anela in contesti di prigionie dorate, il fallimento personale, spesso e volentieri umano e sentimentale, e infine ma non in ultimo, l’esaltazione fasulla dei ruoli di potere. Argomentazioni che combaciano esplicitamente, non senza qualche cliché a lungo andare, con i film che mettono al centro il cinema. A seguire, negli anni ‘50 e ‘60, la lista si arricchisce di film di simile livello, se non addirittura superiore: The Bad and the Beaufiul (Il bruto e la bella, Vincente Minnelli, 1952), The Barefoot Contessa (La contessa scalza, Joseph L. Mankiewicz, 1954), The Big Knife (Il grande coltello, 1955, Robert Aldrich), What Happened to Baby Jane? (Che fine ha fatto baby Jane?, Robert Aldrich, 1962), senza dubbio il capolavoro del lotto. Aldrich trattò il tema del divismo e delle conseguenze in diversi suoi film, tra i quali The Legend of Lylah Clare (Quando muore una stella, 1968) e The Killing of Sister George (L’assassinio di Sister George, 1968). Secondo lo schema delle fiabe, Robert Aldrich fa baluginare alla mente e agli occhi risultati scintillanti al cospetto della meraviglia insita nella scoperta della Mecca del Cinema , che al pari di un luogo incantato, catapulta le sue eroine e i suoi falliti, dentro un incubo a occhi aperti, nel quale lusso e scandali vanno a braccetto con lo spettro della depressione e dell’alcolismo. Quello che è assente però in questi film è una forma di riflessione critica e morale riguardo la complessità della creazione di un film, il denso significato che si cela dietro alla nascita di ogni opera d’arte cinematografica, concentrandosi invece sulla rappresentazione psicosociologica del riflesso della notorietà. Ad osare, altrove, è proprio Ingmar Bergman, che in La Prigione (1949) tratta il tema da un punto di vista di confusione tra realtà e finzione, vita vera e vita filtrata sul grande schermo, dietro a un film da farsi, nel quale dovrebbe essere protagonista nientemeno che il Diavolo, mentre un rapporto di coppia si deteriora, filtrato attraverso la finzione filmica messa in atto. Non è un caso che si tratti del primo film in cui il soggetto è dello stesso maestro svedese, contenendo in nuce parte dei temi che poi a partire dagli anni ‘50 avrà occasione di approfondire. A raccontare delle esistenze di registi in crisi e di contesti creativamente seducenti, quali possono essere i set di film, saranno molti altri registi e in America solo in epoca più tarda si attingerà dalla letteratura per tentare di approfondire ulteriormente la tematica: The Day of the Locust (Il giorno della locusta, John Schlesinger, 1975), The Last Tycoon (Gli ultimi fuochi, Elia Kazan, 1976) sono un gradino sopra tutti gli altri e anche se non sempre a fuoco sugli scopi narrativi ultimi, offrono un’immagine veritiera di quegli ambienti e di coloro che ne tengono le redini a livello produttivo. Alcune scene restano particolarmente impresse, perché pregne di significanza in merito al senso del fare film (De Niro che spiega, da un racconto apparentemente di vita ordinaria, di pura gestualità di vana attesa, che si sta in realtà facendo del cinema ad uno stralunato sceneggiatore, interpretato da Donald Pleasence). Nel cinema moderno, a partire dalla seconda metà degli anni ‘50, furono proprio i cineasti liberi e anarchici delle nouvelle vague, specialmente quelli francesi dei Cahiers du Cinèma, a rileggere scientificamente la narrazione attraverso l’esplicitazione del mezzo, ovvero mostrare spezzoni di film o cineasti al lavoro, nel tentativo di far riemergere quella fascinazione perduta, omaggiandola anche per mezzo di citazioni. Negli anni ‘60 in particolare, l’artificio della narrazione si fa scoperto e tutti i trucchi messi in atto con l’arte del montaggio, divengono degli strumenti utili alla rappresentazione del “making of”. Sono trucchetti ottici che servono per confondere. Si entra in sala, ci s’immerge nel buio e si finisce per credere, proprio come in un sogno, a tutto ciò che scorre sullo schermo. Per quale motivo fingere che non sia questa la prassi? Gli autori della modernità guardano al cinema come ad uno strumento di liberazione dalla regole, dai dubbi instillati dal credo religioso, dalla confusione politica. E utilizzano la cinepresa, lo strumento, il linguaggio, come una forma di affermazione politica delle idee messe in campo. Ma è la stessa cinepresa, con i suoi trucchetti ottici, a sbaragliare i dubbi volti a uniformare un pensiero critico, riflessivo. Il cinema è un mistero e come tale va indagato attraverso le sue specificità, a partire da quelle toccabili, dai mezzi tecnici per mezzo dei quali i film prendono forma, vita. Jean-Luc Godard e Francois Truffaut ci mostrano, ad esempio, cineasti a lavoro, in crisi o intenti a risolvere problemi di natura organizzativa, impegnati a tenere su il morale a troupe e interpreti. Registi persi dietro a diatribe produttive o a situazioni sentimentali trasportate ingenuamente sul set. Accade questo in Le Mèpris (Il disprezzo, 1963) e in La Nuit Americaine (Effetto Notte, 1973). La creazione può interrogarsi così sulla natura stessa dell’atto creativo. In Godard, soprattutto, ma anche in Truffaut, seppur con modalità diverse (il ritratto di Godard è più doloroso e condizionato dal dover mantenere un minimo di fedeltà nel racconto d’infedeltà coniugale e di fallimento artistico insito nel grande romanzo di Alberto Moravia, mentre quello di Truffaut rappresenta sì la complessità della realizzazione di un film ma anche la meraviglia, la gioia insita nell’atto creativo, nei suoi riverberi intenzionali sugli artisti che lo dominano con il loro ingegno), abbondano discussioni e citazioni utili ad avvalorare le tesi messe in forma di racconto. Godard torna spesso sul tema e cerca di farlo in modi diversi, sposando spesso e volentieri, in maniera veramente innovativa, anche un approccio documentaristico, da inchiesta giornalistica (Due o tre cose che so di lei, 1967, Crepa padrone tutto va bene, 1972). D’altro canto, in quegli stessi anni, Federico Fellini con 8 ½ (1963) medita sulla sua crisi personale di artista, mettendo in scena un abisso filmico nel quale perdersi volentieri, perché fuso con strali onirici di grande eleganza. Quello cui assistiamo, come in un circo ambulante e danzante, è la perpetua ricerca di un senso da donare all’opera attraverso la ricerca dei volti giusti (il casting) che in una chiave immaginifica (il film da farsi), si fa film già fatto e composto (il film stesso cui assistiamo). La complessità dell’opera, lungi dall’essere esaustiva, esamina la crisi dell’artista e dell’uomo, smarrito tra sensi di colpa reiterati, occasioni mancate, relazioni inadeguate. E riesce a farlo destando stupore, meraviglia nei cineasti di tutto il mondo. Gli farà il verso, nel 1980, Woody Allen, con Stardust Memories, atto di amore smodato nei riguardi dell’opera di Fellini (che tornerà sul tema, sull’atto del filmare, non solo in chiave cinematografica, ma anche giornalistica, televisiva e teatrale, nel corso della sua filmografia), non privo d’intuizioni felicemente personali, comunque attraccate all’ispirazione del film di riferimento. Woody Allen, sin dal suo esordio nel 1969, si diverte spassosamente a giocare, utilizzando il mezzo di ripresa, nella riproposizione delle modalità possibili di costruzione di una storia attraverso la gestazione della stessa tramite mezzi disparati. Spesso e volentieri è il suo stesso personaggio a rivolgersi in camera (come molti dei personaggi dei film di Godard) per introdurre le sue assurde disavventure e le malefatte sentimentali di cui è in qualche maniera consapevole vittima (questo da Prendi i soldi e scappa fino almeno a Annie Hall). Anche in Germania, i nuovi cineasti si lasciano attrarre dal tema e inscenano storie di blocchi creativi e crisi personali. Rainer Werner Fassbinder, con Veronika Voss (1982), in uno scintillante bianco e nero, racconta a modo proprio, privo della benché minima edulcorazione, la crisi intima di una diva dei tempi andati, scavando a fondo in temi di natura psicologica e neurologica con spietata tragicità (in fin dei conti, il film è una versione priva di censura dello schema che è alla base di Viale del tramonto). Lo stato delle cose (1982) di Wim Wenders è un film estremamente importante, tra i più significativi sul metacinema (sarà lo spunto di partenza per un altro film americano, riflessione tragicomica dei disastri di una produzione filmica, realizzato dal drammaturgo David Mamet nel 2000, State and Main, Hollywood, Vermont, ma riprende ed amplia avvedutamente una vicenda già raccontata antecedentemente dallo stesso Fassbinder, nel 1970, in Attenzione alla puttana santa). Si racconta di una troupe al lavoro di un film di fantascienza, con un certo Fritz Munro come regista (derivazione dai maestri del cinema tedesco dei primordi, Lang e Murnau) che a capo di una sorta di “missione” impossibile in terra straniera, si abbandona alla monotonia in albergo nei dintorni del set, in Portogallo, assieme alla troupe, da quando scopre che i fondi per la pellicola sono finiti e che il produttore si è reso irreperibile da Los Angeles. Non ci sono più soldi e in assenza di nuove comunicazioni, regista, troupe e interpreti, annegano dentro una noia esistenziale, assopiti dal panorama balneare estivo, all’interno di un albergo semidistrutto da una recente burrasca. Poi a metà strada il film cambia registro e attraverso un viaggio (i viaggi sono sempre presenti nei film di Wenders, come metafora di un cambiamento che stenta però a compiersi), quello del regista, delinea un andamento da giallo. Si fa metafora del senso interrogativo sul perché continuare a fare film. Una volta ritrovato il produttore, scopre che egli si è nascosto in un camper, nel tentativo di sfuggire alla gang criminale cui aveva fatto richiesta di soldi per la produzione del suo film. Il denaro sempre al centro, in grado di corrompere tutto e tutti, altresì necessario, per mettere in piedi quei film che amiamo e che abbiamo bisogno di vederli poi compiuti. Il regista però non crede molto alla storia, la prende come una scusa, ma è costretto a ricredersi. Ed è qui che entra in campo il mezzo cinematografico, visto solamente in un prologo ammaliante (il film di fantascienza che mette in mostra i superstiti di un conflitto nucleare), quando Fritz, cinepresa alla mano, tenta di filmare l’impossibile, la morte al lavoro. Il film è una delle riflessioni più convincenti e rilevanti a livello metafilmico, nonché uno dei due o tre capolavori di Wenders. Nei film di Wenders, a tornare spesso come strumento di racconto, sono a dire il vero un po’ tutti i mezzi tecnologici, dalla radio ai registratori di una volta, dai telefoni agli orologi, dalle vecchie cineprese agli apparecchi fotografici e ai primi personal computer della Apple. Quasi tutti compaiono proprio in questo significativo film.

Due film importanti che indagano le conseguenze del vissuto sulla lavorazione del film e viceversa, sono di nazionalità distanti ma con dei tratti storici in comune, la Russia e l’Inghilterra. Mi riferisco a Nikita Mikhalkov, con il suo Schiava d’amore (1975) e a Karel Reisz che in Gran Bretagna gira nel 1981 il memorabile La donna del tenente francese. Nel film del regista russo, sceneggiato con Andrej Konchalovskij, è la rivoluzione bolscevica del 1918 a fare da sfondo alla vicenda che riguarda una diva dell’epoca impegnata a girare un film nonostante gli sconvolgimenti in atto, per una irrazionale quanto libera e selvaggia voglia di guardare in avanti e non farsi condizionare dalla politica e dalla guerra. Puro amore per il cinema. La storia, pur non essendo particolarmente coinvolgente, supplisce alle carenze con un impeto, in bilico costante fra tragedia e commedia, degno di nota. Il ritmo, dopo qualche passaggio macchinoso, cresce a dismisura, consegnandosi ad un finale spettacolare. L’altro, dramma tratto dall’omonimo romanzo di John Fowles e sceneggiato nientemeno che da Harold Pinter, incentrato sulle incomprensioni tra uomo e donna, condizionate dal film che i due protagonisti stessi stanno girando, è invece un lavoro di grande raffinatezza e profonda intelligenza narrativa. Jeremy Irons e Meryl Streep sono i due interpreti protagonisti: Charles, un paleontologo attratto da una donna malfamata, Sarah, che dopo la fine della storia d’amore con un tenente ha subito contraccolpi psicologici tali da rinchiuderla in una melanconia profonda, a causa dei pregiudizi tipici della società dell’era vittoriana. La trama del libro di Fowles, grazie al genio di Pinter, diventa strumento della storia del film nel film che spinge i due protagonisti a far nascere una storia d’amore anche nella realtà, via via sempre più condizionata dall’andamento stesso del film e dal finale previsto. La realtà gioca in maniera ambigua e sottile e si dimostra essere una beffa rispetto al film, dove il gioco della finzione fa volgere gli avvenimenti verso rosee aspettative, alterando, in una mal calcolata sopravvalutazione, il vissuto. La troupe al lavoro viene mostrata solo in una o due scene, un ciak e i grandi pannelli per le luci messi in mostra, per far entrare dentro il meccanismo, per lasciarne vivere un poco quella fascinazione pur sempre necessaria. Però, a poco a poco, ci si sente parte del conflitto, come se si stesse assistendo alla vicenda sul set, accanto ai personaggi, e al contempo si fosse intimi amici degli attori, dell’uomo e della donna, e si seguisse, turbati e meravigliati, la loro diatriba sentimentale. Un film che pur sfiorando il melodramma, decide di non imbrigliarcisi, teso a sviluppare più un autentico dramma di natura sentimentale che avvince anche grazie al rigore e alla bravura appassionata degli attori, alla sapiente maestria nella messa in scena da parte del regista cecoslovacco, tra i padrini del Free Cinema inglese degli anni ‘50/’60. La fantasia può far capolino nella realtà, condizionandola ma la vita si snoda, crucialmente, appresso ad altre necessità ed urgenze e quando le riprese hanno fine, l’incanto vissuto sul set appare come un’avventura con una fine certa. Tutto è di passaggio, la memoria filmica però rimane lì impressa, nonostante tutto. E come gli amori più importanti, non si cancella.

Nei decenni a venire, il cinema ha cercato e trovato, talvolta, vie di comunicazione auto-riflessive e metalinguistiche sempre più audaci. Talvolta però confuse tra cosa voler dire e in quale modo provare a comunicarlo. Le sperimentazioni linguistiche, puramente visive, hanno preso sempre più il sopravvento e il futuro del cinema sembra essere appeso ad un’assenza di reali esigenze espressive, di qualcosa da voler comunicare con una certa urgenza. Non si fa che citare, copiare e ricalcare temi, motivi, filmografie, generi del passato, talvolta con risultati di sintesi eccelsa (vedi Tarantino, Paul Thomas Anderson e Kitano, ad esempio), talaltra con esiti discutibili (i registi che prevalentemente si affidano alla televisione, come apparente forma d’innovazione a livello di scrittura, che non fanno che serializzare storie già viste e straviste al cinema). Se tutto è già stato detto, tanto vale riproporlo donandole soltanto una veste diversa. Siamo in preda a un’esorbitante confezionamento iperrealistico, ipercinetico. Lo spettatore si sente però sempre più preso in parte, parte integrante di una comunicazione diretta e sfrontata con il pubblico, sballottante, caotica e tuttavia immersiva (vedi Fight Club). Sono segnali di un’auto-riflessività della scrittura che denota invero una auto-referenzialità. Si mostra più il gioco e meno il meccanismo scaturente l’effetto. L’uomo inizia a diventare un’espressione secondaria, al pari della manualità artigianale. Quindi, il senso, nella creazione di un’opera, si disperde tra le seduzioni cui il pubblico, confuso dalle nuove forme di comunicazione, si ritrova sballottato. Con la nuova telefonia e i social network, la comunicazione si è fatta rapida e d’immediata presa. Non c’è tempo per prendersi delle pause di senso. Urge comunicare in sintesi, spesso in pochi secondi, concetti che richiederebbero senza ombra di dubbio un maggior approfondimento. Sono le risultanti di una ipercinesi, un’ipnosi collettiva cui si è soggiogati. Bello allora apprezzare, anche al di là di un discorso metafilmico, opere che sanno prendersi i loro tempi nella descrizione di un ambiente e dei personaggi, dei caratteri che li popolano. Film che non hanno l’urgenza di velocizzare necessariamente l’azione, né di sconvolgere le traiettorie d’intensità filmica. Film che non vogliono farsi beffe dell’intelligenza dello spettatore (come nelle serie televisive, nelle quali è fondamentale comunicare chiaramente in quale direzione si sta andando già dal pilot, senza lasciare granché spazio all’immaginazione, o come in tanti film Netflix spacciati per essere cinema, e fondati in realtà su caratteristiche dettate da algoritmi). Detto questo, il cinema, in profonda evoluzione, continua a riflettere su se stesso, nel tentativo di darsi una forma, una direzione. E si ritrova a perlustrare le nuove modalità del realizzare film, le difficoltà dell’esordio, i nuovi meccanismi insiti nelle relazioni tra produttori, autori e mercato. Tutte riflessioni che prendono forma a partire dagli anni ‘90 e che a cavallo tra vecchio e nuovo secolo, convergono in sperimentazioni interessantissime, anche quando non del tutto riuscite (vedi Il cameraman e l’assassino, persino disturbante nella sua frontalità di messinscena riguardo le studiate mosse di un serial killer del quale è complice lo stessa troupe televisiva che decide di filmarne le sconvolgenti gesta, e The Blair Witch Project, apripista di tutta una serie di film found-footage, sottogenere del mockumentary, con arditezza tecnica e totale noncuranza della confezione, nonché degli sviluppi di una narrazione). Oggi, non ci sono in realtà molte vie di mezzo. O si opta per una rivisitazione del cinema che fu, oppure ci si affida a sperimentalismi esasperati, come i film realizzati quasi interamente in un unico piano sequenza che tentano, con gli scossoni stessi del mezzo di ripresa, di assaltare l’apparente sicurezza dello spettatore e il conservatorismo tipici del pubblico medio. Appare utile tornare, a margine dei discorsi e dei concetti elaborati, ad un film di Ingmar Bergman, Persona (1966), nel quale si vede una pellicola prendere fuoco. Il genio svedese sembra cancellare anzitempo ogni tentativo d’imitazione. Quel che è stato filmato è consegnato alla storia e non può in alcun modo essere eliminato. Condizionerà il cinema dell’avvenire ma la storia va avanti e ci si dimenticherà comunque di quanto è stato fatto. Il tempo scorre veloce. Rimane la memoria, offuscata dall’esperienza intima e personale. Il Cameraman (Buster Keaton, 1928) sembra realizzato posteriormente, rispetto al film di Bergman. Il fotografo che si fa assumere in un’agenzia giornalistica, interpretato da Keaton stesso, si fa trovare impreparato ogni volta che c’è bisogno di catturare il momento, di filmare la testimonianza utile all’inchiesta in corso d’opera. Dimentica di caricare la pellicola, quella stessa pellicola che Bergman fa bruciare, e quando, arresosi, decide di abbandonare l’incarico, il casuale ritrovamento di un paio di filmati girati accidentalmente dalla sua cinepresa, uno dei quali realizzato da una scimmietta ammaestrata, lo salva dalla disoccupazione e dall’anonimato. Il caso interviene a salvare il cinema, realtà permettendo. La pellicola resta impressa, anche se prende fuoco o non la si carica nel mezzo di ripresa. Il cinema riflette se stesso perché non c’è fascinazione maggiore. E in fin dei conti, anche per gli addetti ai lavori, continua ad essere un sondabile mistero.

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