The Whale

L’appartamento dove vive Charlie, in sovrappeso a 250 chili, è la risultante di una vita da recluso. Offre lezioni di letteratura online, a web-cam spenta, e una diagnosi al cuore non gli lascia molta aspettativa di vita. Nonostante ciò, rifiuta categoricamente il ricovero. Si sfoga mangiando e non spende i soldi che guadagna, che tiene nascosti alla sua premurosa badante Liz, perché in cuor suo vorrebbe riavvicinare a sé la figlia perduta troppo presto a causa della sua omosessualità, per aiutarla e darle un futuro. Ellie è ora in un vicolo cieco comportamentale, nella classica crisi dell’età tipica di coloro che crescono senza un padre. Inoltre, Thomas, un membro missionario del gruppo religioso New Life, si presenta in casa sentendosi in dovere di aiutare Charlie, perché solo Dio può. La luce divina del Signore che vede e provvede ma che nel caso di Charlie non guarisce, non può, perché dipende solo e unicamente dallo stesso Charlie avviarsi verso la guarigione. Quella stessa luce che subentra a tratti, nell’arco di un film di due ore interamente ambientato in un appartamento (o meglio, in soggiorno). La luce s’intravede quando un uccellino viene a mangiare i pezzetti di mela che Charlie lascia sul davanzale o quando una volta aperta la porta, con il viavai di visite, il sole fa capolino irraggiando gli angoscianti interni. La cupezza dell’esistenza di Charlie si rigetta sui visitatori che lo redarguiscono affinché vada in ospedale (Liz) o lo disprezzano (Ellie) perché non riescono e non possono dimenticare il vile abbandono, o che ancora lo invitano a farsi guidare dalla luce del Signore (Thomas). Charlie però, tutt’altro che remissivo, è dotato di uno stucchevole ottimismo. Sente che prima di lasciare la Terra, deve fare l’opera giusta: liberare da quel dolore e da quella oppressione l’adorabile figlia Ellie che d’altro canto fa di tutto per dimostrarsi insolente e vendicativa. Adorabile secondo Charlie, difatti. E tutto il film, tratto dall’omonima opera teatrale di Samuel D. Hunter, anche sceneggiatore, è un percorso a passi grevi e pesanti, verso una redenzione familiare, intima e interiore, da parte di Charlie, nei riguardi di sua figlia, ma anche del suo passato e della sua natura, considerata da chi predica una certa concezione della spiritualità, peccaminosa. Una natura dalla quale non potersi redimere appunto perché natura. E qui vi entra di soppiatto l’elemento religioso al centro del fulcro nevralgico del film. I dialoghi e lo scandaglio psicologico cui sono sottoposti tutti i personaggi, in particolar modo Charlie, vanno a fondo nelle comparazioni destrutturate tra ciò che è il volere avvertito e ciò che dicono i fatti, denotando l’ipocrisia che è alla base dei comportamenti. Dal punto di vista registico, Darren Aronofsky, delinea questo percorso interiore dando spazio e un poco di respiro ad una macchina da presa che lentamente si muove accentrando spesso e volentieri il suo sguardo sul corpo obeso di Charlie (un plauso deciso non può che andare al reparto del trucco), sui suoi occhi, sul suo sguardo annacquato da tanta perdizione, dall’acqua di quel mare da cui nei frammenti di ricordi si fa bagnare, come un Achab alla ricerca di se stesso – il peso della balena che pesa sull’anima sembrerebbe essere quasi un archetipo del suo inconscio sommerso da tutto quel peso. Non è un caso che le stanze della sua casa siano oscurate nei punti cardinali, che i tappeti e il pavimento siano un intruglio di resti di snack, pizza e panini grassi ingurgitati per gonfiarsi e non saziarsi mai davvero. Neanche il rigetto offre soluzione, non libera mica da un peso che dipende da altro. Aronofsky sa consapevolmente che per restituire una forza di sguardo su un essere così ripetutamente, volutamente “disgustoso”, deve accordarvi empatia intenzionale. Fattore che può giungere concentrandosi essenzialmente sulla storia, sugli architettati conflitti tra i personaggi, sulla loro affaticata psicologia. A poco a poco impariamo a conoscere Charlie e a giustificarne azioni e motivazioni. Fatichiamo ad osservarlo Brendan Fraser, anche da fermo. Si fa conquistare gradualmente, attraverso quello sguardo umido e quel passo gonfio, pesante, quegli sforzi sovrumani che restituisce con grande umiltà e credibilità. La Ellie della brava Sadie Sink, che inizialmente ci appare così esageratamente contraria ad ogni forma di bontà e accettazione, è la chiave di volta per comprendere l’evoluzione di un film (l’evoluzione di quella età così decisiva) che nella prima parte offusca e affossa, pende fortemente sul livello medio di sopportazione, privo com’è di moto (solo quello interiore pulsa e plasma come un prisma sconosciuto), il film ristagna appresso a quel languido e molle corpo che striscia e tuttavia, seppur a fatica scorre, facendoci sentire con quello stesso peso. Qualcosa di non addomesticabile. L’adolescente schiva sgama le bugie degli altri e ogni intromissione esterna viene vista come una ulteriore minaccia. In fin dei conti è lo stesso sentore di Liz (l’ottima Hong Chau) che circonda Charlie di un livello di protezione che a lungo andare si rivela tossico, perché soffoca e toglie libertà di opzione. Un errore involontario che umanizza il loro rapporto fatto di sguardi d’intesa, abbracci, monitoraggi infermieristici, pianti. Lacrime gonfie di dolore.

Aronofsky, perfettamente consapevole delle ripercussioni emotive che un tour de force di questo tipo genererà negli spettatori, si scopre e dichiara apertamente il suo obiettivo: scoprire i sensi di colpa, toccare oltre ai nervi anche l’anima. A tal riguardo, riesce così a costruire uno psicodramma di febbrile intensità e devastante sommovimento interiore. La dimensione intima e privata si rivela essere la sua inquadrata forza. La dimora la sua radice malata, gettata in faccia e in pieno petto al pubblico con soppesata costernazione. Così, tutti afflitti, ci si meraviglia a tal fine, anche se a gran fatica, quando prende e fa alzare dal divano la “balena”. Per farla muovere. Moby Dick quando passa lascia un segno. Ellie lo sa e ora può vederlo, comprenderlo. E accettarlo. In questo modo, tutto il peso terreno può sollevarsi e svanire. Può innalzarsi. Rilucere a nuova vita ad un passo dall’abbraccio finale.

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