Affermare che il 1895 sia stata una data cruciale per la nascita dell’arte cinematografica è quanto di più appurato si possa asserire. Sta di fatto che il primo vero film, dicasi lungometraggio, è stato realizzato soltanto nel 1913 e si tratta di un kolossal storico di produzione italiana dal titolo Quo Vadis? di Enrico Guazzoni; mentre c’è chi assicura che La Fiera delle Vanità di Charles Kent (1911) dovesse essere già considerato come tale. Poi, successivamente, David Wark Griffith, con Nascita di una Nazione (1915) amplia la durata rendendo le invenzioni innovazioni di puro spettacolo in grado di andare oltre il razzismo insito nella costruzione dell’epica tragedia. I primi film narrativi furono Il Viaggio nella Luna (1902), del genio fantastico-giocattolaio di Georges Méliès, e La Grande Rapina del Treno (1903) di Edwin S. Porter, che prima di tutti essenzializza l’importanza del montaggio e dell’azione, generando un ritmo nella compartecipazione delle componenti.
Dal 1915 inizia a svilupparsi il linguaggio del muto in tutte le sue varianti, nelle innovazioni formali e in quelle puramente espressive, della luce, del montaggio, del ritmo, della narrazione. Ci sono alcune date, che più di altre, hanno segnato la storia del cinema, in virtù proprio di queste caratteristiche. Date storiche che ci hanno accompagnato non solo ai primordi, ma anche ai nostri giorni, poiché il cinema è un’arte in continua evoluzione e lo dimostra per certo il progresso della tecnica del 3D (innovazioni che hanno abbracciato non solo il tridimensionale, dal primo uso massiccio di computer grafica del fumetto cyberpunk Tron del 1982 siamo giunti sino ad oggi con il nuovo capitolo tolkeniano di Peter Jackson, Lo Hobbit, adesso nelle sale italiane, filmato in 3D a 48 fotogrammi al secondo), nonché la pesante cinepresa dotata di tecnologia Imax che ha permesso cose strabilianti a Christopher Nolan per Il Cavaliere Oscuro (2008), il primo film della storia realizzato con 28 minuti di riprese Imax, mentre i minuti si sono allungati a 72 nell’ultimo incredibile capitolo Il ritorno. Ma veniamo ad analizzare le date fondamentali di un percorso qui fissato cronologicamente.
1921: esce il Carretto fantasma di Victor Sjöstrom e i trucchi di Méliès sembrano già sorpassati. Contrasti di luce, angolazioni anomale, sovraimpressioni, costituiscono alcune delle spiccate caratteristiche tecniche di un film, che rivisto oggi si rivela piuttosto datato, ma che all’epoca costituì un punto di partenza da cui poi si sviluppò l’arte cinematografica di uno dei più grandi maestri, Friedrich Wilhelm Murnau. Il capolavoro espressionista Il Gabinetto del Dr. Caligari (Robert Wiene), dell’anno prima, si staglia lì nel mezzo, tra una mirabile espressione di un’arte pittorica e la suggestione di un disegno cinematografico ancora lontano da una forma avviluppante, ma l’inganno c’è e una delle prime basi del cinema viene condotta sul set, dando l’esempio a molti mistificatori della settima arte, di trarne del profitto. Ma il 1921 è anche l’anno del primo lungometraggio di Charles Chaplin, Il monello (una sorta di continuazione di alcuni temi ricorrenti nei suoi pionieristici shorts), poi escono Destino di Fritz Lang (magie espressioniste con prologo, epilogo e tre episodi centrali), Pagine del libro di Satana dell’altro grande maestro Carl Theodor Dreyer (con 4 eventi storici narrati sul filo conduttore della contrapposizione fra Dio e Satana), Femmine Folli di Erich Von Stroheim (fosco melodramma pesantemente tagliato dalla produzione), Le due orfanelle di David W. Griffith (teatro in scatola che sfocia nel melò), Lo scoiattolo di Ernst Lubitsch (una spassosa farsa sulla guerra all’epoca sottovalutata), La rotaia di Lupu Pick (forse il primo esempio di dramma da camera, cosiddetto Kammerspiel) e I quattro cavalieri dell’Apocalisse di Rex Ingram con la consacrazione del luministico divo Rodolfo Valentino. Tra spettacolo ed incisività drammatica e bellica, un segno, un tracciato che è già percorso.
1924: il muto matura un proprio linguaggio, cresce una veemenza poetica che abbraccia ampie basi che fungeranno da epigoni a tutta una serie di autori e di film. Von Stroheim dirige il suo capolavoro, cui occorsero sei mesi di riprese, Greed perlomeno fu il suo film meno massacrato (in ogni caso fu ridotto, a più riprese, da 240 minuti a 108 dal produttore MGM Irving Thalberg, anche se la versione originale che il regista desiderava vedere in commercio era della bellezza di 4 ore e 3 minuti, presentata soltanto alla Mostra del Cinema di Venezia del 1999); l’orrore entra dentro il mito e la visione è la prima raccapricciante, poiché ha i segni di un’avidità senza precedenti. L’ultima risata di Friedrich W. Murnau, innesta dentro un tradizionale kammerspiel, delle innovazioni stilistiche che lasciano del tutto disorientato il pubblico di allora (come i movimenti di macchina che abbracciano traiettorie e spazi vicini alla psicologia del personaggio principale, nell’assoluta mancanza di didascalie). Poi c’è Buster Keaton che con il mediometraggio La Palla n.13 gioca in maniera geniale con la materia dei sogni e dell’illusione al cinema, mentre con il lungo Il Navigatore inventa una comicità da camera all’interno di una nave dove gli oggetti e gli spazi ristretti acquisiscono una loro natura di azione, una loro cosmica vitalità, condizionante quella del corpo, in una sorta di soggetto/oggetto di scambio perpetuo, tipico della filmografia di Keaton. I Nibelunghi e Il ladro di Bagdad, rispettivamente di Fritz Lang e di Raoul Walsh, lavorano sul primigenio fantasy perpetrando il mito dentro i meccanismi fantastici della favola su larga scala. Carl T. Dreyer dirige un magnifico Mikäel, sulla scorta di un fascinoso lavoro in interni, quelli effettivi della scenografia e quelli concernenti la vita del pittore filo conduttore del romanzo-film. René Clair e Dziga Vertov radicalizzano già il linguaggio, surreale e filo-documentario teorico, con Entr’Acte e Cineocchio. Mentre l’esordio, dopo una serie di film diretti per la Universal sotto pseudonimi, di John Ford, segna il primo grande passo verso lo sviluppo di una delle poetiche di maggiore respiro dell’intera storia del cinema.
1925: è l’anno della nascita del montaggio delle attrazioni e del ritmo forsennato del manifesto caotico e rivoluzionario di Sergej Michailevic Ejzenstein che con Sciopero e soprattutto La Corazzata Potëmkin teorizza la centralità del montaggio nell’arte cinematografica, per una fruizione dell’evento filmico totalizzante. Leggasi fra le righe un predeterminato caos organizzato. Il montaggio delle attrazioni serviva ad accostare immagini eterogenee e apparentemente inavvicinabili, per generare non solo un’emozione ma una vera e propria interazione col vissuto stesso dello spettatore che sarà inevitabilmente scosso dal flusso d’immagini cui assisterà. Basterebbe questo per rendere degno di nota il 1925, ma anche Chaplin, con La febbre dell’oro, ci offre un simpatico ed eloquente bozzetto umoristico su una favolistica caccia all’oro; così come Keaton, con Le sette probabilità, ci dona almeno una sequenza d’antologia, il lungo inseguimento finale di un manipolo di pretendenti femminili, verso lui, l’inadatto per eccellenza. Il fantasma dell’Opera di Rupert Julian ci appare come il risultato più chic-choc a livello visivo, teatral-scenografico, e quindi convincente, del romanzo di Gaston Leroux. Oscar Micheaux, primo cineasta nero della storia, ci offre uno dei suoi film più importanti (purtroppo disperso nel tempo), Body and Soul. Chissà, forse il nostro contemporaneo Spike Lee, sostenitore delle lotte solitarie di Micheaux, ce lo farà riemergere dal nulla. Varieté di Ewald André Dupont modella i virtuosismi già esplicitati da Murnau, in un balletto-circo di manifesta fattura romantica e drammatica.
1929: se il 1927 è l’anno del primo film sonoro, Il cantante di jazz di Alan Crosland, film musicale sincronizzato più che altro in funzione dei brani musicali, colonna portante del film, nonché anno del prodigioso portento del Murnau americano, Aurora, il 1929 è l’anno di Hallelujah! di King Vidor, filmetto musicale che mostra per la prima volta la vita dei neri nel sud degli Stati Uniti in maniera assolutamente banale e segregazionista, ma anche e soprattutto di Blackmail di Alfred Hitchcock. Ricatto, questo il banale titolo italiano, ci offre il primo grande risultato del cinema sonoro, per l’uso espressivo e spiazzante dei suoni e dei rumori. Il film è stato inizialmente girato muto, poi l’insistenza di Hitchcock portò alla registrazione sonora di più bobine. L’uomo con la macchina da presa di Vertov conduce alla massima potenza ed ai più alti risultati tutto un decennio di sperimentazioni, ricalcando sul manifesto del cineocchio (kinoglaz, occhio meccanico, occhio della cinepresa, occhio del mondo, su noi, tutti/o), una potente esibizione di una giornata tipo di un cineoperatore atto a riprendere scene quotidiane, dove la sensazione finirà per far da padrona a tutto il resto. Carrellate, riprese oblique, doppie esposizioni, salti di scena, split-screen, fast-motion, freeze-frames, primissimi piani (di cui ne offre un mirabile esempio, appena l’anno precedente, il capolavoro muto di Dreyer, La passione di Giovanna d’Arco, dove i volti dei giudicatori e della giudicata concertano una sinfonia d’impressionante morfologia espressiva).
1931: Dracula e Frankenstein di Tod Browning e James Whale inaugurano il ciclo di mostri di fattura Universal, creando alcuni dei primi miti inossidabili della storia. Bela Lugosi e Boris Karloff personificano due icone dell’orrore, condizionanti una vita. I Big Studios sono già formati. E se All’ovest niente di nuovo di Lewis Milestone, del 1930, è il primo capolavoro del sonoro (ancora oggi impressionante per il realismo della guerra unito ad un lacerante lirismo), M di Fritz Lang lo è in seconda battuta appena un anno dopo.
Antesignano dei film sui serial-killer, Il mostro di Düsseldorf disorienta abilmente per la sua mirabile fusione di un linguaggio altamente espressionista, con un linguaggio puramente sonoro. Un motivetto musicale, fischiato dall’umano indiziato, un uomo dotato di ragione ed intelletto, diviene il filo conduttore di un’accusa che infrangerà molte regole morali.
Luci della città di Charlie Chaplin compone della poesia attraverso la raffigurazione di uno smarrimento/ritrovamento che ha le sue basi nella semplicità espressiva, tanto della comicità, quanto del dramma sotteso.
Il Dottor Jeckyll di Rouben Mamoulian, dopo la versione del 1920 di John Stuart Robertson, e prima di quella del 1941 di Victor Fleming (tutte desunte dal breve romanzo di Robert Louis Stevenson), formalizza, estremizzando le componenti orrorifiche presenti nel testo: dal trucco alla perfidia, di cui se ne percepisce l’attaccamento alla società vittoriana.
Tabù di Robert J. Flaherty (che in seguito disconobbe l’opera) e Friedrich W. Murnau (che non fece in tempo a vedere il film perché vittima di un incidente stradale in cui perse la vita), fonde il documento tribale sulla storia di una privazione dentro il contesto di un’avventura esotica, con il dramma del rifiuto, che ha tutta la fatalità tipica del cinema del regista tedesco.
Nemico pubblico di William A. Wellman richiama, con lo scultoreo volto di James Cagney, un perentorio grido di manomissione delle regole basilari della società, da parte di una mente malata che abbraccia l’impossibile arrampicata sociale senza conseguenze, anticipando in questo Scarface del 1932, di Howard Hawks, che ci mostra anche una prospettiva della città ancora più cupa e corrotta.
Monkey Business di Norman Z. McLeod lancia la verve linguistica e mimica dei fratelli Marx, che si cimentano per la prima volta con un film dalla scandita narrazione, senza tutti i numeri musicali del precedente esordio.
La cagna di Jean Renoir pone le basi di un realismo testamentario che farà scuola, non solo in Francia, mentre Frank Capra con La donna di platino pone le basi della vicinissima commedia sofisticata e della cosiddetta screwball. Josef Von Sternberg stupisce con Disonorata, il racconto tragicomico e kitsch di una spia che ha il volto di Marlene Dietrich.
René Clair inventa una commedia-balletto che abbraccia il sociale con due film contemporaneamente: Il milione ed A me la libertà.
Esordisce sul grande schermo la coppia comica Stan Laurel ed Oliver Hardy con il film Muraglie.
1939: nel corso di un decennio in cui si sviluppano al massimo grado i grandi Studios di Hollywood (Columbia, 20th Century Fox, Warner Bros, Paramount, Universal, Metro-Goldwyn-Mayer, RKO, United Artists), che codificano tutti i generi canonici della storia del cinema (western, horror, commedia, musical, melodramma), alla fine dello stesso alcuni significativi film riassumono emblematicamente tutto un percorso, in termini di spettacolo e di costume.
Via col vento sintetizza in maniera magniloquente gli sforzi e gli sfarzi produttivi di un’epoca e nello specifico della MGM di David O. Selznick, vero autore del film che nella travagliata lavorazione di due lunghi anni fa succedere alla regia i nomi di George Cukor, Sam Wood e Victor Fleming (poi accreditato). Manifesto gonfio del melodramma in un Technicolor meraviglioso, Via col vento rivela oggi tutte le sue ingenuità di prodotto segregazionista.
Lo stesso Victor Fleming dirige poi la più bella fiaba, in musical, della storia del cinema: Il mago di Oz. Gigantismo scenografico, toni e colori tenui e sfavillanti allo stesso tempo, una malinconia Disney che rimanda in parte al primo capolavoro Biancaneve e i sette nani (Judy Garland si aggira per i campi in fiore con la stessa levità trasognata di Biancaneve). Anche in questo caso, il produttore Selznick sostituisce Cukor con Fleming alla regia.
Ispirato a un racconto di Maupassant e tratto da un racconto di Ernest Haycox, Ombre Rosse di John Ford segna il ritorno del regista al western dopo 13 anni. Interessato all’intreccio psicologico dei personaggi che attraversano la frontiera, il film fissa le basi per i caratteri che si succederanno all’interno delle codifiche di un genere che appariva come in declino ma che poi negli anni ’40 tornerà decisamente a brillare, grazie soprattutto a Ford e alle primeve stelle John Wayne ed Henry Fonda (protagonista l’anno successivo del capolavoro fordiano Furore, tratto dal romanzo di John Steinbeck). Già nello stesso 1939, George Marshall, con il suo Partita d’azzardo ne fa valere le motivazioni, dosando abilmente dramma e commedia.
Frank Capra, con Mr. Smith va a Washington, punta il dito contro i politicanti, abbracciando con coraggio la speranza di una nuova prospettiva sociale (vince un Oscar il soggetto di Lewis R. Foster e James Stewart appare nel suo primo ruolo da protagonista degno di nota, per cui riceve una nomination dai membri degli Academy).
Ernst Lubitsch dirige una deliziosa Greta Garbo nella commedia grottesca Ninotchka: comunismo e rivoluzione vanno a braccetto in uno spasso di finissime gag di non immediata lettura.
Ma è in Francia che due notevoli film improntano uno sguardo d’autore di assoluto valore e di sicura presa sul futuro dei cineasti che abbracceranno quel segno distintivo: La regola del gioco di Jean Renoir e Alba tragica di Marcel Carné (con la raffinatissima penna del poeta Jacques Prévert). La regola del gioco, cinico gioco vaudeville, fa scuola con i suoi piani-sequenza, per la profondità di campo ottenuta con l’utilizzo di vecchi obiettivi di ripresa, per l’intelligenza con cui viene utilizzato il fuori-campo e nell’utilizzo delle ricche scenografie.
Alba tragica è invece il punto più alto di una corrente denominata realismo poetico (film raccontato tutto in flashback): decadenza e naturalismo a braccetto per ritratti di disperato populismo, dove gli ambienti e le scenografie fanno anch’essi da padroni, permeando atmosfere fumose e comunque cupe. Jean Gabin costruisce un memorabile ritratto di aspirante suicida che commette un omicidio a causa di un amor fou.
1941: il genio moderno di Orson Welles apre le porte al cinema degli autori. Citizen Kane – Quarto Potere è indagine giornalistica a ritroso della vita di un certo magnate della stampa, Charles Foster Kane, interpretato dallo stesso regista, anche istrione attore, con un’abilità mimetica straordinaria. Flashback, profondità di campo, angolazioni insolite, tutto contribuisce all’assoluta modernità del film per l’epoca. Spettacolo ambizioso e pedante, forse oggi paradossalmente invecchiato meno bene rispetto ad altri film, ma di incredibile attualità sensazionalistica. Il genio del regista poi non potrà più esprimersi più come in questo primo film, girato a soli 24 anni, a causa di diatribe con le future produzioni. E soltanto negli anni ’50-’60, nello specifico con Il processo (1962), potrà riavere quel margine di libertà che gli ha permesso di porre le basi per il cinema del futuro, anche se tutto ciò avverrà lontano dagli States.
La materia per la nascita ufficiale del genere noir (sottogenere del gangster-movie, di derivazione francese, con l’influenza del realismo poetico d’oltralpe), proviene da scrittori gialli come Dashiell Hammett e Raymond Chandler. Il detective Spade, interpretato dalla stella emergente Humphrey Bogart, indaga su un mistero riguardante un’agognata statuetta a forma di falcone, nel capostipite Il mistero del falco del maestro John Huston. Impianto teatrale e ancora convenzionale, ma ottima scrittura e bravura degli interpreti ne fanno già un antesignano dei caratteri e del veleno che coglieranno poi tutti i suoi personaggi nei capolavori del genere (da La fiamma del peccato a Vertigine, da Una pallottola per Roy, sempre del 1941, a Il grande caldo, da Le catene della colpa a Il bacio della morte).
Preston Sturges, si conferma maestro della commedia assieme a Cukor e Hawks, con due pellicole contemporaneamente: I dimenticati e Lady Eva. Commedie di costume, sagaci e brillanti, riflessive e persino poetica la prima. Assoluta novità e valore.
Com’era verde la mia valle, Piccole volpi, Sangue e arena, Arriva John Doe, Colpo di fulmine, Ho sognato un angelo, Hellzapopping, non fanno altro che registrare le coordinate di successo e piena espansione delle regole dei grandi Studios dell’epoca, incalzando uno sviluppo magistrale alle fondamenta dei generi più in voga all’epoca.
Il sospetto di Alfred Hitchcock si fa notare per essere il secondo film in America dell’infallibile e prolifico regista britannico, tutto costruito su un’abile suspense giocata sull’ambiguità, con un finale però che non soddisfò lo stesso regista.
In Italia, Alessandro Blasetti (La corona di ferro, La cena delle beffe) e Mario Soldati (Piccolo mondo antico), fanno risalire le quotazioni del cinema italiano poco prima della realtà rivoluzionaria del neorealismo: Vittorio De Sica, con Teresa venerdì e Maddalena: zero in condotta, sul modello del cinema dei cosiddetti “telefoni bianchi”, ne svilupperà al meglio, con la preziosa collaborazione di Cesare Zavattini, le peculiarità che hanno fatto scuola (il loro inimitabile capolavoro resterà Ladri di biciclette).
1945: Roma città aperta sconvolge tutto il mondo e commuove l’Italia appena uscita dalla seconda guerra mondiale. Nasce ufficialmente il neorealismo e rimane negli occhi di tutti l’uccisione di Pina (Anna Magnani nel film). Fra documento e melodramma, il film di Roberto Rossellini, che con Paisà e Germania anno zero, conduce più a fondo il discorso neorealista, innestandolo nel proprio vissuto e in quello dei cittadini reduci di guerra, negli italiani e nei tedeschi.
Amanti perduti, della coppia Carné-Prévert, ambientato nella Parigi di Primo Ottocento, quella ricostruita dei bistrot, dei teatrini e dei mimi (ne è il protagonista Baptiste Debureau, interpretato da Jean-Louis Barrault), la Parigi della Belle Époque di Victor Hugo e Honoré de Balzac, è pieno di vita e romanticismo. Omaggio fastoso ad un’epoca finita ed elegante film di costume che ha la sua forza in alcune scene d’ambiente e nella dichiarazione d’amore espressa e smarrita nella folla del finale.
Breve incontro e Spirito allegro di David Lean, dalle opere teatrali di Noël Coward, innestano il realismo anche nel cinema inglese. Breve incontro è un delicato e commosso racconto morale di un’avventura extraconiugale dai risvolti episodici. Spirito allegro anticipa spiritosamente e con brio, anche se in maniera meno nera, quelli che saranno i temi portanti delle commedie della Ealing degli anni ’50.
Billy Wilder vince 4 Oscar con Giorni perduti (miglior film, regia, sceneggiatura con Charles Brackett e Ray Milland attore protagonista): superbo dramma sull’alcolismo che inizia a sondare il terreno per una rivoluzione delle ridicole norme del Codice Hays che imperava in quegli anni nel cinema americano.
Gilda entra nell’immaginario grazie allo stile sinuoso di Rita Hayworth. Il film di Charles Vidor porta il concetto di divismo a dei livelli mai raggiunti prima d’ora, dove le note della canzone “Put the Blame on Mame” si fanno passi di un percorso di pericoloso avvicinamento ad una passionalità mai rappresentata prima d’ora in maniera così seducente e provocatoria.
Alfred Hitchcock gira il suo film più onirico del periodo: Io ti salverò. Intricata e intrigante storia d’amore all’interno di una clinica dove la verità viene a galla sotto le pieghe di un segreto.
Detour di Edgar George Ulmer, assistente di Murnau, resta un modello di b-movie, girato in soli 6 giorni e in due soli ambienti con attori non professionisti. Sordido noir dagli echi kafkiani, modello basilare di partenza per il cinema indipendente americano che nascerà negli anni ’50, il più indie fra tutti gli indipendenti del mondo.
Michael Curtiz, dopo una quantità impressionante di film di genere (ma anche del film di culto Casablanca) e soprattutto d’avventura (potrebbe essere considerato lo Stevenson del cinema), dirige Il romanzo di Mildred, uno dei primi film che mostra una donna come protagonista in un ruolo molto forte e d’impronta melodrammatica. Joan Crawford vince l’Oscar per questo film (oggi, il giovane Todd Haynes, ci ha fatto un film-tv in due parti, con Kate Winslet come protagonista).
Il ritratto di Dorian Gray di Albert Lewin è il film più memorabile che sia mai stato tratto dal celebre romanzo di Oscar Wilde. Elegante, sobrio, fantastico nel senso più piacevole del termine, con più di una squisitezza formale.
Obiettivo Burma di Raoul Walsh è uno dei film più realisti che siano mai usciti da Hollywood e propone Errol Flynn in un ruolo diverso dal solito eroe dalla brama avventurosa.
E mentre Jean Renoir dirige il suo miglior film in terra americana, L’uomo del sud, Robert Wise (incredibile talento eclettico) firma La Iena, liberamente tratto dal racconto “Il ladro di cadaveri” di Robert L. Stevenson. Macabra vicenda di trafugamenti di cadaveri, resa sottile dai dialoghi e dalle finissime riuscite degli interpreti, fra cui due mostri sacri dell’horror come Bela Lugosi e Boris Karloff.
Poi è dalla Gran Bretagna che il gotico inizia a prendere corpo, con Incubi notturni di Basil Dearden, Charles Crichton, Alberto Cavalcanti, Robert Hamer; prende forma il film a episodi, espediente che sarà spesso utilizzato in film dell’orrore di marca proprio british (soprattutto negli anni ’60-’70). Un gotico raccontato anche con i crismi di un umorismo nero che fece scuola nella stessa Ealing (casa di produzione del film).
1950: nasce il cinema moderno con Rashomon e Il diario di un curato di campagna; la narrazione si allontana dalla linearità del classico e si fa più frammentaria. Le opere di Akira Kurosawa e Robert Bresson ridefiniscono le regole di scrittura. Rashomon, oltre a comporre un acquerello sulla variegata arte dell’illuminazione, mostra il punto di vista di più voci, ciascuno dà la propria versione dei fatti che differisce completamente da quella dell’altro (il film vince il Premio Oscar come Miglior Film Straniero). Il diario di un curato di campagna, dall’omonimo romanzo di Georges Bernanos, adotta la voce narrante come espediente di pedinamento della coscienza, la lacerata coscienza di un prete malato di cancro che si adopera nell’impossibile opera di salvazione del vicino.
Billy Wilder, dall’alto della sua caustica ironia, offre una disanima sul divismo tramite il ritratto di una celebrità ritratta nello sfiorire degli anni e della sua carriera; Hollywood è la Mecca del cinema ma anche del passaggio di consegne, ciò che è vecchio non fa più presa e il nuovo avanza inesorabilmente, lasciando il passato nell’apoteosi della rigida follia (lo sguardo di Gloria Swanson nel finale del film è assai emblematico, così come la vecchia villa dove vive con il suo maggiordomo interpretato dallo sfortunato regista Erich von Stroheim). Ma anche il film di Wilder è innovativo dal punto di vista narrativo, poiché adotta una narrazione in flashback lungo tutto l’arco del film, dal punto di vista di un morto, uno sceneggiatore di cui scopriamo il cadavere in piscina sin dalle prime battute.
Eva contro Eva si addentra nell’analisi di una borghesia teatrale che non si discosta poi molto dall’elite cinematografica. Un gruppo di attrici si fa una guerra a suon di battute sferzanti per il proprio posto al centro della scena; Bette Davis ne è la regina, in un film che non nasconde, e lo fa in maniera spudorata, il suo impianto teatrale, grazie all’ottima regia di Joseph L. Mankiewicz.
John Huston dirige Giungla d’asfalto, un pregevole capostipite nel genere della rapina, teso come pochi, indugiante il privato di ogni singolo criminale; non vi è lieto fine e il nero del noir finisce per dominare la scena (fa la sua prima apparizione Marylin Monroe).
Vanno nella stessa direzione sia Nicholas Ray con Il diritto di uccidere che Elia Kazan con Bandiera gialla, mentre Anthony Mann pone le basi del suo western viscerale e contemplativo.
Harvey offre a James Stewart il ruolo più consono alla sua carriera di attore, tramite il ritratto di un uomo di mezza età che ha come amico immaginario un coniglio gigante.
L’amante indiana di Delmer Daves è il capostipite di un filone pro-indiani all’interno della storia del genere western.
George Cukor dirige una brillante Judy Holliday in Nata ieri, ispirato a una commedia teatrale di Garson Kanin.
Luis Buñuel, con I figli della violenza indaga sulle povertà del Messico con un realismo allucinato, senza mezzi e senza speranza alcuna, andando persino oltre il neorealismo italiano.
Esordisce Michelangelo Antonioni con Cronaca di un amore, Luciano Emmer trasporta l’esperienza neorealista nella commedia di costume, con un sommesso e buffo ritratto d’epoca in Domenica d’agosto, mentre Pietro Germi vince lOrso d’Oro al Festival di Berlino con il folkloristico Il cammino della speranza.
1959: prende corpo la nouvelle vague francese e le prime innovazioni d’inizio anni ’50 divengono stile e forma concrete; Jean-Luc Godard, François Truffaut, Eric Rohmer, Claude Chabrol, Jacques Rivette, la formano dichiarandone le prerogative già nel 1957 e subito si accodano nomi come quelli di Alain Resnais, Jean-Pierre Melville, Jacques Demy, Roger Vadim, Jean Rouch. La nuova ondata promuove l’accentramento della figura del regista, basso costo, l’utilizzo di spazi e scenografie dal vero, un’immediatezza nello stile e un livello di sperimentazione fuori dei canoni soliti che l’invenzione di nuove strumentazioni leggere e portatili, come il registratore Nagra e le nuove macchine da presa 16 mm, rendono tutto più semplice e maneggevole. Non solo, a fungere da rottura con la narrazione di stampo classico è la diffusione della forma di pensiero, libero e anticonvenzionale “sentire” in diretto collegamento con il sentimento dello spettatore che diviene diretto partecipe dell’azione.
Hiroshima Mon Amour e I quattrocento colpi ne codificano le rivoluzionarie regole. Il film di Alain Resnais fonde il documentario-reportage con la fiction, il melodramma della storia d’amore con il linguaggio letterario della sceneggiatura di Marguerite Duras, oltre a proporre dei flashback assolutamente innovativi. Resnais porta avanti il discorso aperto con lo scioccante documentario Notte e nebbia, andando oltre la cronachistica documentazione di un lager.
Truffaut sta dalla parte dei più piccoli e vince la Palma d’Oro a Cannes con I 400 colpi, in cui segue il peregrinare di un bambino, maltrattato, disadattato a scuola, in via di fuga dagli obblighi della famiglia e delle istituzioni. Lo stop-frame del finale sul suo volto è un atto di amore estremo nella sua intima decantazione di un’educazione mancata. Tutti i registi iniziano a porsi domande su come iniziare a realizzare film al di fuori della morsa delle grandi produzioni, cercando di autofinanziarsi prodotti indipendenti dalle regole del box-office.
Sempre in Francia, è anche l’anno di Pickpocket (che chiarisce con esemplarità il discorso sul linguaggio di Bresson), Il buco (un rigorosa decantazione esemplare e fallita della fuga, messa per immagini dal talento di Jacques Becker, che ha come modello il capolavoro di Bresson Un condannato a morte è fuggito), Occhi senza volto, il capolavoro di Georges Franju (lacerante e lirico horror di sofisticata armonia delle componenti filmiche).
Negli Stati Uniti, A qualcuno piace caldo di Billy Wilder è la commedia perfetta, dal ritmo impeccabile, dai tempi comici esaltati ed esaltanti allo stesso tempo, dalle interpretazioni brillanti in cui impazzano Jack Lemmon, Tony Curtis e Marylin Monroe.
Lo specchio della vita di Douglas Sirk è l’apoteosi del melodramma, impossibile da non piangere, così tetro e passionale da non avere precedenti (remake dell’omonimo film di John M. Stahl).
Intrigo internazionale di Alfred Hitchcock, mette nel bel mezzo di un complotto spionistico, sofisticato e pieno di humour, un uomo qualunque, interpretato da Cary Grant; alcune scene passano giustamente alla storia del cinema, come l’attacco inatteso al protagonista nel bel mezzo del deserto.
Un dollaro d’onore di Howard Hawks gioca abilmente con gli schemi teatrali per parlarci di un eroismo privato, di cui John Wayne e Dean Martin ne offrono una delle interpretazioni migliori; e lo stesso vale per il Gary Cooper dell’insolito L’albero degli impiccati di Delmer Daves.
Anatomia di un omicidio di Otto Preminger è un esemplare e curato film giudiziario, dalla sceneggiatura calibratissima, dove il regista, maestro dalla elegante e composta forma, dà il suo meglio.
John Cassavetes dirige Ombre, punto di arrivo del New American Cinema, dove un linguaggio-verità (di matrice jazzistica), composto di improvvisazione e volontari non professionisti sul set, offre un ritratto di estrema veridicità sociale di un microcosmo interrazziale.
Ingmar Bergman, con La fontana della vergine ci racconta una tragedia sotto forma di una favola allegorica della civiltà, dove il selvaggio è componente inaccettata del vivere civile; vince l’Oscar per il Miglior Film Straniero, quando i precedenti Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo e soprattutto Il posto delle fragole già mostrano il meglio del cinema religioso, intimo e spirituale di Bergman.
Jean Renoir rilegge “Il Dr. Jeckyll e Mr. Hyde” di R.L. Stevenson, con Il testamento del mostro, offrendone una versione fosca e ricca di spunti interessanti che punta più sulla componente psichica del dramma di un uomo diviso fra le regole borghesi e le sembianze di una personalità ribelle.
Il regista indiano Satyajit Ray conclude la trilogia di Apu Sansar, iniziata nel 1955 con Il lamento sul sentiero e terminata, appunto, con Il Mondo di Apu; un ritratto di soave e realistica umanità.
La grande guerra di Mario Monicelli ci parla di un episodio della Prima Guerra Mondiale, di cui sono protagonisti Vittorio Gassman e Alberto Sordi, in un atto di eroico patriottismo, mentre Antonioni si afferma con il dilatato affronto alle psicologie borghesi de L’avventura (che percorre la linea già tracciata nel 1953 dall’ammirevole Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, stagnando nel patetico del tutto assente ne Il grido, 1957, dello stesso regista ferrarese).
Un maledetto imbroglio di Pietro Germi, ispirato al romanzo di Carlo Emilio Gadda Quer pasticciaccio brutto di via Merulana, c’introduce nel giallo di un’inchiesta che ha le sue radici nella inefficienza del sistema burocratico italiano.
Dino Risi dirige Alberto Sordi ne Il vedovo, film-manifesto di un personaggio che è già a tutto tondo (fa il paio con Il moralista di Giorgio Bianchi), nel segno di un arrivismo sociale che di lì a poco tempo giungerà al suo culmine.
Valerio Zurlini inizia a maturare con Estate violenta, un drammatico episodio di guerra, come Fuochi nella pianura di Kon Ichikawa ci scuote con una vicenda di disperata umanità derelitta.
1960: l’anno della maturazione di una corrente rivoluzionaria. Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard è il film esemplare di uno studio di regia che al pari degli indipendenti americani (su tutti Jonas Mekas, Andy Warhol e John Cassavetes) ha poi fatto scuola in tutto il resto del mondo. Da un’esile sceneggiatura di Francois Truffaut, il film di Godard si reinventa di giorno in giorno, omaggiando i polizieschi americani e la sua cultura degli anni ’40-‘50, l’universo dei b-movie e la figura di Humphrey Bogart (verso cui ammicca il protagonista Jean-Paul Belmondo); l’improvvisazione e la furtiva leggerezza della macchina da presa la fanno da padrone nella componente stilistica e ritmica del montaggio del film.
Ma è Louis Malle, al di fuori del movimento, ma condottiero di un linguaggio provocatorio con Ascensore per il patibolo (1957), a smantellare in maniera anarchica il linguaggio cinematografico con Zazie nel metrò, dall’omonimo romanzo di Raymond Queneau, lo fa giocando con i codici in un andirivieni (del montaggio, delle scenografie in una Parigi reinventata) comico-grottesco ed evocativo (da Chaplin ai fratelli Marx).
Francois Truffaut si diverte a mescolare stili e generi con Tirate sul pianista, ma l’effetto non è lo stesso del precedente.
Anche per l’Italia sono annate d’oro: Federico Fellini ci conduce per mano dentro la Roma del perbenismo borghese-cattolico e delle cadute di tono – l’inizio della matura ipocrisia – con l’esemplare-caotico La dolce vita, Luchino Visconti ci offre un ritratto guasto dall’interno del BelPaese con forti componenti melodrammatiche in Rocco e i suoi fratelli; La ciociara offre a Sophia Loren il tragico e fortunato ritratto di una popolana vittima di stupro assieme alla propria figlia nel corso della seconda guerra mondiale, per la regia di Vittorio De Sica e la sceneggiatura di Cesare Zavattini; Luigi Comencini con Tutti a casa gioca sui paradossi marziali del ritorno a casa, soppesando la tragedia dentro lo humour del solito Alberto Sordi; Antonioni prosegue il suo discorso sull’incomunicabilità con il meno riuscito ma ugualmente affascinante La notte; Mario Bava ridefinisce il gotico ampliandone le coordinate stilistiche con il personale La maschera del demonio, che eccezion fatta per gli splendori della Hammer britannica, non aveva precedenti, contribuendo tra l’altro a spostare il bilanciere dal genere fantastico e del terrore a quello specificatamente horror (in questo senso influenzerà sempre di più il redivivo Dario Argento).
In America sconvolge il thriller Psycho di Alfred Hitchcock, il suo più grande successo commerciale tratto dall’omonimo romanzo di Robert Bloch; ispirato alla figura del killer Ed Gein, Norman Bates (Anthony Perkins) gestisce un motel fuori zona, dove accade di tutto e dentro il quale si nasconde una figura oppressiva ed inquietante che tortura la vita dell’assassino protagonista (passa alla storia la scena dell’assassinio nella doccia che richiese sette giorni di lavorazione, 72 posizioni della macchina differenti per soli 45 secondi risultanti nel montato finale, scena ricca di velocissime inquadrature racchiuse dentro un serratissimo montaggio).
Si dovrà attendere l’anno 2012 (con The Artist) per poter vedere una pellicola in bianco e nero vincere l’Oscar per il miglior film, cosa che avvenne per il pregiato film di Billy Wilder L’appartamento (che nel 1960 si aggiudicò anche quello per la regia, la sceneggiatura, il montaggio e la scenografia): storia della piccola rivincita di uno scrupoloso impiegato interpretato da Jack Lemmon, che già anticipa le storie di desolazione urbana (che condurranno alla fuga) del grande cinema americano degli anni ’70.
Stanley Kubrick (che pochi anni prima offrì con Rapina a mano armata uno dei primi atti d’innovazione dentro gli schematismi della narrazione) dirige con la mano pesante della produttore-attore Kirk Douglas, un grande affresco storico, pieno di inesattezze e di fascino spettacolare, Spartacus.
Elia Kazan offre un ritratto sublime e cadenzato sui passi di uno scontro socialista con Fango sulle stelle, e Richard Brooks, con Il figlio di Giuda, decanta le fascinazioni degli uomini-sermone che sotto l’ala protettrice di sette “revivaliste” invadono l’America di provincia (ne è protagonista un superbo Burt Lancaster, forse alla sua migliore interpretazione della carriera).
Roger Corman con I vivi e i morti rilegge Edgar Allan Poe, con l’ausilio della sceneggiatura di Richard Matheson, involgarendone, nonostante i pregi visivi, i contenuti più sottili e decadenti della sua poesia sul disfacimento umano; mentre con La piccola bottega degli orrori, girato con un budget di 30.000 dollari in appena tre giorni e con una scenografia già esistente, crea il remunerativo horror demenziale, ricco di humour d’origine british.
In tutta Europa nascono nuove forme di linguaggio, si rinnova il coraggio di osare e si sviluppano rivoluzionarie cinematografie in tutti i Paesi d’Europa (con particolare predilezione per il Free Cinema inglese che ha le sue origini negli innovativi documentari di metà anni ‘50, il nuovo cinema tedesco nato dentro il manifesto di Oberhausen, la Nova Vlnà cecoslovacca e il nuovo cinema polacco e ungherese) e anche del Mondo (in particolare il Cinema Novo brasiliano).
Il film più importante di tutte queste cinematografie, nel 1960, è quello di Karel Reisz, cecoslovacco emigrato in Inghilterra, Sabato sera, domenica mattina (adattato per il cinema dall’omonimo romanzo di Alan Sillitoe). In questo pregevole film Albert Finney, ci offre un esemplare ritratto di operaio diviso fra le ingiustizie di una classe sociale fra le più sfruttate di sempre e gli amori di due donne; con il risultato finale di un film analitico e di grande forza contenutistica ma anche stilistica, dove la caustica ironia si stempera nella documentaristica noia del privato (film che influenzerà tutto il cinema inglese a venire e soprattutto l’intera filmografia di Ken Loach).
Il Free Cinema (nato nel 1956 da un manifesto programmatico redatto tra Lindsay Anderson, Karel Reisz, Lorenza Mazzetti e Tony Richardson, con i documentari O Dreamland, Together e Momma Don’t Allow), era improntato su un atteggiamento dei suoi anti-eroi molto free (poi associati ai kitchen sink drama), nel senso di personaggi fuori degli schemi, piuttosto che nelle componenti stilistiche (eccezion fatta per le opere più personali e significative: Io sono un campione di Lindsay Anderson, Billy il bugiardo di John Schlesinger, Tom Jones di Tony Richardson e Non tutti ce l’hanno di Richard Lester).
Nello stesso anno, in Inghilterra, Michael Powell, per la prima volta senza il suo compagno di avventure Emric Pressburger, ci offre con L’occhio che uccide, un acuto cult-movie sull’arte del guardare che diviene antitesi della concezione del vivere, in una serie di riferimenti intellettuali e parodistici, filtrati nel nero delle situazioni più oscure dentro il canone del metacinema.
In Giappone, il maestro Jasujiro Ozu, con il suo terzultimo film Tardo autunno, riprende i temi di Tarda primavera (1949), elaborandone il contenuto dentro un meccanismo ancora più lieve nei toni del raccontare tipico del suo cinema, semplice e rigoroso allo stesso tempo, contemplativo educativo come nessun altro; Kaneto Shindo sviluppa il tema predominante dell’imponente L’uomo di Aran di Robert J. Flaherty, nella sua Isola nuda, esaltandone la poesia delle gestualità e dei particolari, stemperati poi nel passeggero dramma di un poema lirico di pacata bellezza accademica.
1968: Stanley Kubrick si pone l’obiettivo di comporre, nel senso musicale del termine, un film secondo un’esperienza visiva, con l’immenso 2001: odissea nello spazio. Il contenuto, parallelamente allo sviluppo del romanzo di Arthur Clarke, diviene indistinta forma filosofica sui temi del sapere della scienza, della scoperta sulle origini dell’umanità unita agli studi sul tempo e lo spazio e sull’intelligenza artificiale. Le musiche di Strauss completano il cerchio dialogico fra le sposate componenti della meraviglia.
Roman Polanski, al suo primo film made in Usa, realizza un capolavoro con il primo film sul versante del demoniaco Rosemary’s Baby (dal romanzo di Ira Levin), dove una spaurita e brava Mia Farrow, al fianco di un ghignante John Cassavetes (l’attore grande autore-regista che nello stesso anno con Volti scava dentro il ruolo attoriale in una messinscena quanto più viva del suo modo di far cinema), sembra essere vittima di una congiura ad opera di tutto il condominio di New York all’interno del quale si è trasferita da poco; Polanski gioca con sottigliezza e grande intelligenza sulle ambiguità del vero e del falso, offrendo il primo esemplare di film del terrore dove tutto si svolge all’interno, come specchio del privato e del reale demistificato, per questo più inquietante. Aprirà ad un filone sul diavolo e i demoni che avrà una lunga schiera di proseliti lungo tutti gli anni ’70, giocoforza in particolar modo in Italia.
George A. Romero, gira in alcuni week-end, con la spesa di circa 114.000 dollari, e con una troupe ridotta, l’antesignano dell’horror fisico La notte dei morti viventi, dove i morti tornano in vita, divenendo zombie, per seminare il panico in un gruppo di sopravvissuti ad una specie di epidemia che ha le sue origini nei film di fantascienza degli anni ’50. Visivamente, il film di Romero, è inevitabilmente influenzato dall’angoscioso e terrificante Carnival of souls dello sconosciuto Herk Harvey (1962) e sarà l’alfiere per le scene più virulente di una marca più splatter all’interno del genere horror. Avrà un remake nel 1998, da parte di Tom Savini, in un film gore a colori.
Blake Edwards dà il suo meglio nel comico con Hollywood Party, con il mattatore Peter Sellers, con un occhio di riguardo alla comicità surreale e stralunata di Jerry Lewis, per un catastrofico profluvio di gag dagli assurdi risvolti comici.
Gene Saks, dirige Jack Lemmon e Walter Matthau nel film più riuscito della coppia, dal titolo La strana coppia. Da una sua omonima commedia teatrale, Saks si mette al servizio dei due mattatori, in un film di scrittura, osservando le mirabili sortite di due falliti che tentano di approcciarsi ai ritmi della vita di quegli anni.
John Boorman (che dirigerà il più strabiliante film thriller d’avventura, Un tranquillo week-end di paura) immagina Lee Marvin e Toshiro Mifune a spartirsi le risorse di un’isola in Duello nel Pacifico, per un’indagine ai margini della civiltà dove due uomini sono costretti a combattere alla luce del sole.
William Friedkin con Quella notte inventarono lo spogliarello, ci porta dalle parti dell’East Side negli anni ’20, per condurci per mano dentro il brillanti nato mondo del burlesque, in una commedia musicale dal forsennato ritmo.
E mentre Bullitt di Peter Yates, è un ottimo esempio di action-movie, con un inseguimento automobilistico da capogiro (ne è il protagonista Steve McQueen), Il pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner è un goffo, buffo ed ammaliante film di fantascienza che finirà per generare un franchise nel corso del tempo.
Mel Brooks esordisce con Per favore non toccate le vecchiette (con cui si aggiudica un Oscar per la sceneggiatura), prendendo di mira, con la sua scatenata e sconclusionata farsa a mò di commedia musicale, il mondo delle produzioni teatrali. In seguito, la parodia diverrà il suo vessillifero (vedi in particolare Frankenstein Junior e Balle spaziali).
Sergio Leone apre la sua trilogia del tempo con l’epico C’era una volta il West (che verrà completata nel 1971 da Giù la testa, e nel 1984 da C’era una volta in America), punto di arrivo del suo personale mito della frontiera, fatto di occhi e volti, polvere del deserto e polvere da sparo, dosati con una tempistica di monumentale pausa e di riflessi nella Storia (il film è prodotto dalla Paramount Pictures). Lo accompagnano lungo questo epico e funerario viaggio dentro il mito, i volti di Henry Fonda, Charles Bronson, Jason Robards, Claudia Cardinale, Gabriele Ferzetti e Paolo Stoppa.
Luis Buñuel ci offre un ritratto eversivo della Chiesa cattolica con il suo La via lattea, attraverso frammentari episodi che riconducono allo sberleffo riuscito del precedente Simon del deserto, nonché ad uno dei suoi capolavori Viridiana (con la famosa scena della baruffa-cena).
Orson Welles dirige in Francia l’enigmatico e torbido Storia immortale, da un racconto della scrittrice Karen Blixen, dipingendo l’affresco privato di un miserabile uomo che vuole portare a compimento l’impossibile compimento di una finzione dentro gli impuri meccanismi della realtà. In realtà il film doveva essere suddiviso in episodi, tutti ispirati ai racconti della Blixen, poi ne fu scelto soltanto uno.
Francois Truffaut riprende il personaggio di Antoine Doinel, creato ne I 400 colpi, e portato avanti in Antoine e Colette (episodio del film L’amore a vent’anni), per Baci rubati, che affronta le peripezie ormai adulte di un giovanotto che matura attraverso le privazioni dell’inesperienza mascherata da timidezza e disadattamento. Jean-Pierre Léaud diviene l’alter-ego del regista stesso. Poi con La sposa in nero, non azzecca il morboso noir che avrebbe voluto fare, lamentandosene poi in seguito (voleva omaggiare il suo maestro prediletto Alfred Hitchcock, intervistato in un imprescindibile testo sull’arte del filmare).
Claude Chabrol ci offre un ritratto coniugale di feroce ipocrisia con Stéphane, la moglie infedele, dove un adulterio viene nascosto con la stessa abilità di un omicidio, e dove a spuntarla è l’astuzia.
Pier Paolo Pasolini apre una fase più direttamente storico-critica, tanto sul versante cattolico quanto su quello borghese, tramite un apologo marxiano-freudiano sulla coscienza dell’uomo rinnegato, con Teorema.
Carlo Lizzani, con Banditi a Milano, partendo da fatti realmente accaduti conduce nelle file del film-inchiesta una riflessione sull’attualità del potere e della violenza, mantenendo un equilibrio fra il primo cinema di Francesco Rosi (Salvatore Giuliano, Le mani sulla città) e il cosiddetto “poliziottesco” che presto avrebbe preso strada.
Damiano Damiani, adatta Leonardo Sciascia, nel suo Il giorno della civetta, perfetto esempio di corruzione alla radice nel sistema italiano, con una sceneggiatura impeccabile scritta da Damiani stesso in collaborazione con Ugo Pirro.
Dino Risi, con la collaborazione alla sceneggiatura dei famigerati Agenore Incrocci e Furio Scarpelli, ripropone in chiave da fotoromanzo alcuni temi di appendice ottocentesca, accompagnati da canzonette con il buffo Straziami ma di baci saziami: Nino Manfredi, Ugo Tognazzi e Pamela Tiffin ne sono i protagonisti.
Elio Petri, che dirigerà un indimenticabile Gian Maria Volonté in Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), ci offre un’intricata suggestione psicanalitica con Un tranquillo posto di campagna, che vede assieme la coppia Franco Nero–Vanessa Redgrave, davanti la macchina da presa oltre che nella vita affettiva.
Vip di Bruno Bozzetto e Yellow Submarine di George Dunning, offrono uno sguardo alternativo, dinamico e persino psichedelico, dell’universo dell’animazione.
Petulia di Richard Lester è il completamento di un percorso a cavallo tra il Free Cinema e la Swinging London, dove una dissonante personalità, disordine del periodo, che ha il volto e il corpo della bravissima Julie Christie (già protagonista del significativo Darling di John Schlesinger), stravolge la vita di un medico apparentemente in ordine con la vita.
If di Lindsay Anderson è l’esempio dimostrativo più efficace sulla rivolta del ‘68, solo che i giovani che si ribellano al sistema sono inglesi, studiano nei college, e non possono manifestare, se non con la violenza dall’interno del sistema-scuola, con l’utilizzo di armi, in un collage confuso ed anarchico, suddiviso in otto capitoli. Palma d’Oro a Cannes per questo irriverente manifesto simbolista e folle giocattolo intellettuale.
Alcuni curiosi film fanno capolino nel bel mezzo delle riforme e del cinema della contestazione: Ciao America, Un uomo a nudo e Nostra Signora dei Turchi. Brian De Palma (al suo secondo film dopo Oggi sposi, come lo stesso protagonista, un giovanissimo Robert De Niro), con Ciao America ci parla di giovani e Vietnam, di prospettive future falsate, voyeurismo latente ed insoddisfazione familiare (mali da cui è in parte afflitto Benjamin Braddock ne Il laureato dell’anno precedente, così come lo saranno i disadattati di Easy Rider, gli adolescenti dei film di John Hughes, e tutti i ribelli del cinema americano degli anni ’70); Frank Perry, ci descrive l’odissea, di piscina in piscina, di un giovane che forse vuole solo scoprire il mondo, quindi l’America, dentro un falso profilo alienante, presente in Un uomo a nudo; infine Carmelo Bene, al suo primo esperimento cinematografico con Nostra Signora dei Turchi, mette in mostra il proprio delirio di uomo e di artista, dentro un film profondamente viscerale e barocco come pochi altri, generando più di un dibattito critico, nonché diversi fraintendimenti.
Artisti sotto la tenda del circo: perplessi (vincitore del Leone d’Oro al Festival di Venezia) e Scene di caccia in bassa Baviera aprono a modo loro la strada ai grandi autori del cinema tedesco che verrà, quello dei vari Rainer Werner Fassbinder, Wim Wenders e Werner Herzog.
Il cinema è, quindi, in piena fase creativa e si potrebbero continuare a citare moltissimi nomi, tantissimi titoli. Per tutti gli anni Settanta, in particolar modo negli anni che vanno dal ’71- al ’75, il cinema della contestazione giovanile si trasforma in un gigantesco e internazionale grido di rivolta delle autorialità che provocano un vero e proprio terremoto dentro le incertezze dei grandi studios, che coraggiosamente cambiano modo di vedere le cose, così come in parte il pubblico (che del resto assiste ad una quantità incredibile di capolavori, soprattutto nel 1971 e 1975). Il contemporaneo parte da qui, non dall’evoluzione della tecnica e nel pastiche dei generi (tipica degli anni Ottanta), bensì dalla rivoluzione intima e privata che gruppi di cineasti, europei e d’oltreoceano, hanno saputo appuntare secondo direttive provenienti dal cuore e dalla profonda passione (decodificazione delle regole maturata nel periodo classico anni Cinquanta, con appigli nei Quaranta), che al pari del moderno e del contemporaneo, ha saputo porre le basi per un disegno grande quanto il cinema stesso, quello dell’economico al servizio delle idee e non viceversa.
Il contemporaneo e il postmoderno (con tutti i suoi rischi di “morte” del cinema per come noi lo conosciamo), sono destinati a dialogare ancora per lungo tempo.