Ho cominciato a fare regia casualmente. Studiavo ancora all’università e mi è stato proposto di dirigere un laboratorio di regia con degli adolescenti di una scuola di Frascati. Sono stati 6 mesi nei quali ho imparato prima di tutto io, insegnando agli altri. Quando non si ha ancora esperienza d’insegnamento puoi metterci dentro le tue conoscenze, il tuo modo di empatizzare con i ragazzi, ma poi senti di non avere ancora le basi per ergerti a vera e propria guida. Ci vuole l’esperienza sul campo ed è arrivata subito. Alla fine di quel corso ho dovuto realizzare un cortometraggio sul tema della prevenzione al fumo. La troupe messami a disposizione era composta da quattro persone, meno del minimo indispensabile ma in qualche modo me la sono cavata. Avevo cominciato a studiare sul serio e correva l’anno 2005. Mi sono appassionato in maniera sorprendente, perché considerandomi sin da piccolo uno scrittore, non avevo intenzione di fare regia, la vedevo come una cosa più grande di me e molto poco riservata. Un po’ come successe a un certo David Cronenberg. Quando ho scoperto l’universo della sceneggiatura, esempio di quanto la letteratura e il cinema si completino vicendevolmente, ho cominciato a mettermi alla prova e complice l’esperienza d’insegnamento e regia mi sono buttato a capofitto nella nuova elettrizzante avventura, passata attraverso la stimolante avventura internazionale del festival itinerante di Cinemadamare. Con questo breve preambolo, giunto nel 2019, dopo due lungometraggi rigorosamente indipendenti e in parte auto-prodotti, sento l’urgenza, a fronte di una serie di esperienze positive e negative, di fissare le basi della mia visione di cineasta, dando degli appassionati consigli, derivativi di altri pensieri di maestri, rielaborati in maniera molto personale. Lungi dal voler professare teorie assolute, voglio condividere una complessa e intimistica visione del cinema, forma d’arte che non nego di venerare.
Partendo dal presupposto che non ci sono dei veri e propri misteri nella riuscita complessiva di un film, è bene approcciare in maniera trasversale alla materia, cominciando a lavorarci su come se invece ce ne siano. Il mistero ci spinge a inoltrarci dentro cose che non conosciamo e fare cinema equivale a una lunga esplorazione, un viaggio da compiere in compagnia, nella speranza che non ci sia nessuno che tenti d’invertire rotta nel bel mezzo dell’arduo percorso di avanscoperta, fondato essenzialmente su un alto grado d’intuito.
Premessa: dobbiamo realizzare film che da spettatori siamo i primi a voler vedere. Non riusciremmo mai a infondere autenticità e forza in un’opera cinematografica se quel film non sarà di nostro gradimento. Un processo creativo che ci deve convincere del nostro amore per il cinema. Senza il nostro amore, potremmo perdere per strada i pezzi di un mosaico destinato a comporre un quadro o uno spaccato di un lato esperienziale della nostra vita.
Diventare registi di film equivale a compiere delle scelte che ci rendono degli esseri umani, perché partendo dal dato umano possiamo esplorare aspetti della vita e dei caratteri delle persone che solo superficialmente abbiamo scelto d’incontrare. Conoscere i propri collaboratori, conoscere i propri attori, meglio se prima dei provini stessi, stimarli. Entrare gradualmente in sintonia e realizzare il film consapevoli che si è tutti sulla stessa lunghezza d’onda. Difficilmente riusciremmo a lavorare bene con attori che non hanno punti di vista simili ai nostri. Entrare in sintonia equivale a stimarli e conoscerli prima del provino può aiutarli ad allentare le tensioni e sfruttare quel teso potenziale in naturale flusso creativo. Lavorare con attori o collaboratori che non si stimano difficilmente condurrà a risultati soddisfacenti, a meno che non si sia molto fortunati.
Immaginiamo di doversi cimentare con l’opera su commissione. In quel caso saremo considerati dei registi, ovvero dei meri esecutori da sceneggiature altrui. Attenzione, molti maestri della storia del cinema (da Hitchcock a Bunuel a Scorsese) non scrivevano i loro film. Sta a significare che riuscivano a imporre il loro punto di vista sulla storia attraverso un linguaggio personale, imitato poi successivamente da altri. Erano considerati dei cineasti. Un regista può essere ritenuto un esecutore nel momento in cui si limita a seguire le indicazioni del produttore che vuole solo assicurarsi il successo nella mera esecuzione delle cose più ovvie. Ma non c’è nulla di sicuro nel cinema. Tornando al concetto del fare film che vorremmo vedere da spettatori, è la scelta giusta da fare soprattutto perché pensare di realizzare un film che abbia successo è pari a un aborto spontaneo. Il nostro film nascerà con un handicap irrecuperabile, perché non esiste una scienza esatta e il pubblico è assai mutevole. Ma se facciamo un film che incontra il nostro piacere personale, sarà più probabile che incontri il favore del pubblico che almeno per noi conta.
Una tappa fondamentale della riuscita di un film è lavorare bene affinché tutti, nessuno escluso, favoriscano la naturalezza. Perdere la spontaneità negli attori rovinerebbe gran parte della credibilità degli stessi, in alcuni casi sarebbe un problema irrecuperabile. A maggior ragione, laddove necessario, dovrebbe essere dedicato minor tempo possibile alle prove, e anzi, per preservare una certa freschezza, sarebbe meglio sostituirle con un sano e anticipato dialogo e una lettura approfondita della sceneggiatura, almeno con gli attori protagonisti. Evitare di perdere la naturalezza nelle interpretazioni, equivale anche a fare attenzione, evitando di giocare con la loro spiccata sensibilità facile a urti e disagi, nella direzione di fronte a tutta la troupe. Le indicazioni principali dovrebbero essere date loro privatamente o comunque in altra sede, lontano da quel set che solitamente brulica di tensione e sveltezza d’intenti. Come ho già avuto modo di spiegare precedentemente in un altro scritto, gli attori dovrebbero arrivare sul set con chiare in testa le dinamiche psicologiche dei personaggi, in modo tale da dedicarsi tra un ciak e l’altro alla gestualità, alle movenze, ai dettagli e alle sfumature utili a calibrare al meglio l’interpretazione, utile a plasmare il personaggio che rimane perlopiù opera dell’attore. Certo, un attore che ha bisogno di una guida registica, ma pur sempre opera della creatività di un preparato interprete. Complementarietà e solidarietà. Fra gli altri elementi utili alla creazione di una delle famigerate paroline magiche di un film riuscito: atmosfera. Non solo la luce, con le sue ombre. L’atmosfera di quelli che più di tutti sembrano essere come degli animali in gabbia: regista e attori. Una gabbia spaziosa con le sbarre a una certa distanza le une dalle altre.
Gran parte della riuscita di un film deriva da un casting di successo. Equivale a dire che ci si deve prendere del tempo affinché il fondamentale intuito del regista metta a fuoco. Trattasi del processo più delicato dell’intera lavorazione di un film ed è inconcepibile fissare i giorni di ripresa ancor prima di cominciare il casting. Si rischia di doversi accontentare di quel che il caso ha condotto fino a noi. Un errore madornale. Questa è prassi nelle corrive produzioni di sceneggiati televisivi, pubblicitarie o cinematografiche più commerciali, dove il più delle volte non è presente nemmeno colui che dovrebbe occuparsi della scelta degli interpreti, il regista – è prassi affidare le selezioni a dei casting director, spesso e volentieri ex attori frustrati che non amano gli attori e fingono di essere lì per scegliere gli attori protagonisti (imposti a discrezione delle grandi produzioni), quando invece c’è spazio solo per piccoli ruoli, figurazioni e comparsate, negando la dovuta chiarezza d’intenti. Non deve diventare la prassi anche nel cinema cosiddetto d’autore, quello spesso e volentieri scritto dagli stessi registi che sono prima di tutto degli sceneggiatori. Scrivendo si hanno dei caratteri, dei volti stampati nella mente e si segue l’istinto nel processo di selezione. Un processo volto naturalmente anche alla conoscenza, al dialogo aperto. Come dico sempre agli attori: prima voglio vedere la persona, poi l’attore. L’unico modo che conosco per arrivare all’identità dell’individuo. Un buon 60% della riuscita di un film è già assicurato, a fronte di un vero, accurato casting.
Secondo la testimonianza di molti maestri del cinema, gli studenti delle scuole di cinema avevano un problema molto difficile da superare. Hanno scarse idee e non sanno come trasformarle in immagini. Soprattutto non hanno un punto di vista filmico. Credono che la tecnica sia la base del buon cinema e non sanno dove arrivare, utilizzando quella stessa tecnica come un abbellimento della forma, ossia come un riempitivo, nel tentativo di sopperire alle lacune contenutistiche. Non funziona, almeno non nel cinema. Sempre i grandi maestri ci hanno insegnato che ogni movimento di macchina deve avere una funzionalità narrativa, deve saper raccontare, descrivere.
Nella lavorazione di un film è fondamentale conoscere il punto di partenza, ma soprattutto quello di arrivo, mentre è nel mezzo che ci si può perdere, per poi ritrovarsi, possibilmente in buona compagnia. Se si smarrisce la bussola, complice l’improvvisazione (che avviene sempre a partire da una base solida, raramente il contrario), si deve sempre tenere bene a mente qual è il messaggio principale che si intende comunicare. E la regia è data, appunto, dalla maniera in cui scegliamo di raccontare una storia. Anche se la storia dovesse somigliare a quella scritta da qualcun altro prima di noi, la differenza la farà il taglio conferito alla nostra regia. Solo sorprendendo lo spettatore, egli potrà evolvere e conoscere modalità di racconto nuove, estranee al tracciato.
Un regista che quando arriva sul set pensa di conoscere già tutto, sarà il primo a non sapere come risolvere il primo problema che gli capiterà sotto tiro. E succederà. Mi spiego meglio: bisogna avere un’organizzazione, le idee chiare, bisogna conoscere bene i propri collaboratori – questo non sempre è possibile ma bisognerebbe riuscire a farlo; però pianificare nei minimi particolari un set equivale a lasciarselo sfuggire dalle mani alla prima occasione, se non si lascia sempre aperta la porta dell’imprevedibile. Chi si fissa sugli storyboard ad esempio – che alcuni confondono addirittura con lo script o la scenografia – lo fa perché gli è stato insegnato da qualcuno che è fondamentale affinché si possa avere un quadro visivo definito con largo anticipo, su un set che il più delle volte non si può controllare fino in fondo. Ci sarà sempre qualcun altro a manovrare i mezzi che tu regista dirigi, ci sarà sempre un imprevisto atmosferico o di affidabilità di una persona che come anello di una catena sarà ritenuta importante se non fondamentale. Uno storyboard soffoca la libertà creativa di una lunga ripresa, salvagente dei migliori attori. Debbono poter sfogare la loro libertà, a partire da un dato scritto, devono riuscire a entrare nell’essenza drammaturgica della storia e i mezzi pesanti attorno a loro dovrebbero essere allontanati o almeno inizialmente messi da parte. Avere a disposizione, con tutti i permessi del caso, un grande set, può ingolosire un regista invogliandolo a gestirlo in maniera rigorosissima. Un errore nel quale è meglio non incappare, per non imprigionare gli attori dentro schemi che li allontanano inevitabilmente dalla spontaneità. Diversi registi utilizzano degli storyboard (o una shooting list, di gran lunga preferibile, sempre per rassicurare chi di dovere), vuoi per abitudine (passione per il disegno e il fumetto si direbbe), vuoi per esigenze di genere. Quando mi riferisco al genere intendo dire che per i film d’azione, i musical, i film che richiedono movimento, specialmente nei casi in cui si tratti di moto all’interno di spazi chiusi o aperti ma comunque circoscritti, è buona cosa fornire dei punti di riferimento specifici. Un’azione comporta movimenti di macchina elaborati, spesso rischiosi, mezzi pesanti, abili stuntmen che rischiano la vita, il permesso di girare presso ampie piazze o lunghe strade e vicoli da controllare millimetro su millimetro. Lo storyboard, solo in quei casi, rassicura tutti, in primis macchinisti, stuntmen, operatore/i e direttore della fotografia. Una pratica da gestire con parsimonia, onde evitare manie spropositate di magniloquenza del regista che anche se in cima all’albero gerarchico della creazione, rimane sempre una parte, il fulcro del mosaico realizzativo.
La musica come processo creativo nell’atto stesso di realizzazione del film. A mio parere, sbaglia chi pensa alla musica solo una volta terminate le riprese del film, peggio ancora chi ci pensa una volta finito il montaggio. La musica sostiene ritmo e armonia del film, invade la preparazione e la fantasia dell’autore e degli attori che incarnano fisicamente i personaggi. La musica dovrebbe fungere da ispiratore già nell’atto stesso di scrittura, di selezione attori, di supervisione sopralluoghi. Ho sempre alcuni brani cardine nelle mie cuffie sin dal primo momento in cui comincio a lavorare al film, fungono da motivo ispiratore. Perché la musica non ti lascia, ti penetra nella testa, nel cuore, nei nervi e funge da linfa vitale al tracciato del tuo film.
Il suono può essere trattato anche in post-produzione, ma è prassi registrare suoni d’ambiente già in fase di ripresa, per avere la copertura di diverse scene d’ambiente, i cosiddetti establing-shot, tramite di situazioni narrative di svolgimento temporale e spaziale differente. Nel suono si cela un enorme potenziale creativo, utile al contrappunto con le immagini, al loro risalto, all’imprevisto che spesso subentra invece dal fuori campo che noi non vediamo e che finisce poi per dare densità a quanto osserviamo in primo piano o in campo totale. Il suono certifica l’intenzionalità psicologica di un personaggio e a volte il pericolo insito in un oggetto nascosto da qualche parte. Il suono rende ancor più creative le immagini e fraternizza mescolandosi con la musica, generando corto circuiti emotivi ad altissimo grado.
Adattare i soldi, i mezzi tecnici, alla storia del film. Mai il contrario. Non si può pretendere di avere tanti soldi per storie intime. Al contrario, in presenza di storie magniloquenti è giusto puntare a raccogliere il massimo budget possibile, altrimenti sarebbe meglio tornare all’intimità, indispensabile base di partenza. Essere capaci di scrivere o di trattare sceneggiature con pochi attori, location e sane emozioni da trasporre per immagini, deve essere il punto di partenza, specie nell’indipendente, di ogni buon regista che si rispetti. Ma parlare attraverso la propria emotività, facendo poesia, non è da tutti. Così si tende ad avvicinarsi da subito ai richiami del cinema di genere, molto pericoloso se non si hanno i mezzi adatti. Meglio continuare a quel punto a sperimentare con i cortometraggi che dovrebbe essere a mio avviso la loro unica finalità di produzione. Il cinema di genere richiede costi maggiorati e risorse produttive e tecnico-realizzative che sono il privilegio di pochi. Meglio andare per gradi, scrivere, infilare nel cassetto e sperare. Partendo sempre da ciò che più ci piace, ricordando sempre la teoria secondo cui il film che scriviamo o che dirigiamo deve incontrare primariamente il nostro gusto e piacere di spettatori. Solo in quel modo avremo delle ottime chance per realizzare qualcosa di valido, dall’alto potenziale di avvicinamento del pubblico.
Muovere la macchina da presa, muoverla il più possibile. Sembra essere l’imperativo categorico di molti registi, anche indipendenti. Eppure ogni movimento di macchina dovrebbe essere narrativamente funzionale. Da qui deriva anche la mania inutile del drone che fa tanto fighi e non descrive nulla. Lo ripeto come un mantra: adattare i mezzi alla natura della storia, ma il contrario. Belli i movimenti di macchina morbidi, volti a scoprire un mistero, come faceva Hitchcock. Sono preferibili alla concitazione del movimento, specie se non si sta facendo un film adrenalinico, di qualsiasi genere esso sia. Bella la sintassi filmica invisibile, tipica di tanti registi americani dell’epoca classica. La sceneggiatura al centro di tutto, anche se poi spesso verrà tradita, almeno in parte, per pure esigenze di sopravvivenza da set. Altro esempio in cui la tecnica prende il sopravvento è la mania dello zoom che coglieva molti registi italiani di genere, raramente in maniera efficace. Uno stratagemma meccanico che induce maniacalmente allo shock. Ma non c’è nulla di naturale in tutto ciò. Rendi la macchina da presa uguale a un occhio umano e falla scrutare a fondo. Nel termine di paragone ci si accorgerà dell’innaturalezza dell’effetto ottico. Scrutare non equivale minimamente a piombare improvvisamente, lesivamente sul dettaglio di un oggetto o il particolare di un corpo umano. Si va per gradi e in genere funziona. Robert Bresson insegna.
Nella prima parte di questo vero e proprio saggio, ho avuto modo di dire che esistono tre film: lo scritto, il girato e il montato. Tre film distinti, non perché la sceneggiatura è sopravvalutata come dicono certi registi. La sceneggiatura non è sopravvalutata, è una guida utile al viaggio, da prendere inizialmente come punto di riferimento principale, per poi, una volta arrivati sullo studiato set, adattarla alle esigenze degli spazi e dei mezzi a disposizione che spesso non sono anticipatamente previsti, specie quando non si può lavorare nei teatri di posa. Nei film indipendenti si lavora quasi sempre per strada, senza permessi. Ci si prende dei rischi, si lavora con l’ansia addosso di stare facendo qualcosa di sbagliato, ma così non è. Si sta contribuendo parzialmente alla documentazione visiva di un luogo, di un ambiente, il riflesso politico di coloro che ne detengono le redini gestionali, senza il permesso istituzionale che non ti permette di andare davvero a fondo al segreto di quei luoghi. Dopo aver cercato di conservare le tappe fondamentali dello script, anche per non mandare in confusione i nostri attori, ci si sorprenderà dei risultati del girato, così tanto da stravolgere a volte la struttura stessa originaria del film al montaggio. Di quelle idee che davanti al computer ci sembravano straordinarie, assolutamente filmiche, ci si accorgerà che si sono come dissolte negli atti di evoluzione, nei minimi e apparentemente impercettibili cambiamenti di una storia che appunto perché per immagini, prende a volte traiettorie di natura astratta, aleatoria. Le decisioni più importanti si finiscono per prendere quasi sempre all’ultimo, a seguito di una serie di casualità. Si prega sempre non si tratti di calamità naturali o disumanamente associate al personale.
Un cinema d’immagini è un cinema d’idee. Secondo questa teoria, una delle basi fondamentali di un vero regista o cineasta, è quella di sapere dove piazzare la cinepresa. L’inquadratura è l’unità minima, quindi le inquadrature devono essere come dei quadri, dove ogni particolare in campo deve avere un valore oggettuale, quindi descrittivo, ma anche emozionale. Se qualcosa non c’entra nulla con quel che stiamo raccontando, sarebbe preferibile lasciarlo fuori campo, a meno che non si punti dall’insieme di elementi a generare quasi esclusivamente delle sensazioni a favore di un cinema sensoriale.
Dimentichiamo tutte le teorie dei film ma solo dopo averne fatto tesoro. Conservando quelle teorie, conosceremo la maniera migliore d’intraprendere il percorso. Un percorso foriero di ostacoli e problematiche. C’è un modo migliore di tutti gli altri per impararle: vedere quanti più film possibile, possibilmente la prima volta all’interno di una sala cinematografica. Non pretendere dalle accademie di cinema, per chi ne ha la possibilità, di assorbire un vero e proprio insegnamento, nella maggioranza dei casi filtrato dal buon senso tipico dei percorsi didascalici accademici. Pretendere da se stessi maggiori possibilità realizzative, grazie all’innovazione del digitale, oggi democratiche. Pretendersi di più sul set, proprio o altrui. Imparare facendo e inizialmente sbagliando a più riprese. Consci di ciò, ci attrezzeremo nel tentativo di limitare i pericoli insiti nella mancanza di teorie, scambiandoli per decisi input creativi da mettere a frutto, incentivando i propri collaboratori alla semina collettiva. In fondo, tutto o quasi si basa sulla cosiddetta sospensione dell’incredulità. Se funziona, si finirà per credere anche alla storia più assurda, così tanto da viverla ai nostri occhi come qualcosa di assolutamente convincente e avvincente. La sana perla dell’autenticità che pervade persino l’ignoto.