Dear Evan Hansen

Caro Evan Hansen. E’ così che cominciano le lettere che Evan scrive a se stesso, su suggerimento del suo terapeuta. Ha a malapena un amico e soffre di un disturbo emotivo che lo porta letteralmente a schivare quei compagni di classe che con lui tentano timidi approcci. L’unico che prova ad affrontarlo di petto è Connor Murphy, un tipo aggressivo, il classico bullo, che dopo un alterco gli porta via una di quelle lettere che Evan è solito scriversi. Ma Connor compie un gesto estremo e quando Evan viene a sapere dai genitori del ragazzo che egli si è tolto la vita e che come lui soffriva di un disturbo di natura psicologica, capisce, dal ritrovamento di quella lettera che la delicata situazione in ballo richiederà l’utilizzo di quelle bugie bianche dalle quali molti cercano di tenersi a distanza ma che a volte servono a non far precipitare certe situazioni. Credono che Evan sia stato il suo miglior amico e gli chiedono di raccontare aneddoti di quello stesso figlio che dimostrano di non conoscere. Il problema è che neanche Evan lo conosceva e di certo non potevano essere amici per la pelle. Per non farli ulteriormente soffrire, inventa così una realtà alternativa, nella quale egli viene soccorso, a causa di una caduta da un albero (avvenuta veramente, ma per altri motivi), dallo stesso Connor, all’interno del loro frutteto. Quel luogo diviene il rifugio ideale che nella mente del gentile Evan offre spunto per l’estro creativo dei suoi racconti che non disdegnano, nel tentativo di rispondere alle richieste incessanti dei suoi genitori, di render loro dei particolari del suo carattere. Riguardo gli adulti che faticano ad entrare dentro l’universo inquieto degli adolescenti, finendo per trascurarne gli affetti, Stephen Chbosky aveva già parlato nel suo film d’esordio “Noi siamo infinito”, privilegiando però un punto di vista più romantico. Evan, dinoccolato, malfermo, insicuro e solitario, trova attraverso il canto la modalità prediletta di comunicazione con gli adulti e di sintonia con i coetanei, arrivando a prendere di soppiatto il posto di un ragazzo che non amava e che per una serie di circostanze, sarà spinto a conoscere in maniera indiretta. Evan trova nei Connor quello che non ha trovato negli Hansen, a causa di un padre assente e di una madre distratta. Trova negli strali di manifestazione creativa, nella scrittura e nel canto, la sua spinta emotiva. Fino a che il canto si libra da una sola voce, il film si crogiola nello stupore degli avvenimenti ma quando le voci diventano plurime, la sensazione di ridondanza rischia di fare i conti col fatto che si tratta pur sempre di un’origine teatrale. La bellezza del messaggio di fondo, tuttavia, rimane intatta e fiera: ciascuno ha bisogno di rintracciare la propria ideale via di comunicazione e ciò può avvenire prendendo il posto di qualcun altro. Poi però, grazie a un ingegnoso lavoro di scostamento delle identità da parte dello sceneggiatore Steven Levenson, Evan crea una realtà alternativa ma vivida e concreta per sopperire tanto alla sua mancata felicità, quanto al trauma della perdita della famiglia Connor che vede in lui una valida alternativa a quel figlio problematico, tanto quanto la madre di Evan non riesce a comprendere davvero il proprio figlio. Una volta che la verità viene a galla, lo squallore ributtante dei social che con estrema rapidità contribuiscono alla gogna mediatica di massa, emerge in tutto il suo inveterato cinismo. Chbosky rintraccia nella linea del musical lo stratagemma di rottura ideale con la tradizione, rinnovandone le fondamenta con un meraviglioso inno alla vita. Il canto di Evan nasce quasi sempre da un’apertura al dialogo, da biascicanti tentativi di comunicazione che si sprigionano in emozioni per mezzo di crescenti prodezze canore. Il canto è misto alla parola e Chbosky sceglie la chiave giusta per dare peso e spazio alle emozioni, evitando d’impolpare il film di scenografie fastose e debordanti, tipiche della maggior parte dei musical, riuscendo a gestire con misura i movimenti e le coreografie, ridotte all’essenziale, e privilegiando all’ennesima potenza i contenuti e i sentimenti. Julianne Moore e Amy Adams supportano un cast di giovanissimi di grande talento e prospettiva, dal fenomenale protagonista Ben Platt (da pelle d’oca la sua interpretazione, fatta di piccoli gesti, fobici tremolii, scatti repentini, schegge emotive susseguenti fra toni di differente origine emotiva), ma anche Kaitlyn Deaver, Amandla Stenberg, Colton Ryan. Se il film è un saliscendi di emozioni, a rischio di deriva cliché senza scaderci mai, è grazie soprattutto al volto e al corpo di Platt, perfetti per veicolare le vibrazioni che “Dear Evan Hansen” riesce a trasformarsi nel one man show di un essere solitario. Chbosky, specialmente quando Evan deve confrontarsi in maniera diretta con chi vuole e ha tutto il diritto di sapere, gli dona un palco intero. Sa che per conquistare il proprio spazio in quel pubblico, fatto di luci e ombre, dovrà fare ricorso ai propri rimorsi. A ogni singulto che tira via, lo spasimo per quella vita mancata, si esterna e sublima a destinazione. Chbosky e Platt sembrano fatti della stessa scorza. Non si può fare a meno di cantare mentre si sogna ad occhi aperti.